giovedì 14 marzo 2013

Raggio numero sei barra due

Incontro del 4 marzo 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
Parlando di Giustizia al raggio numero sei... barra due.
Azalen Tomaselli Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Oggi l’aria ha un tepore di primavera, il sole versa raggi dorati sulle strade brulicanti di gente indaffarata e sui veicoli che in fitta ragnatela percorrono la città . Azalen e Simone varcano il portone di San Vittore, senza Giorgio trattenuto da un’influenza - come si è premurato di comunicare nella mattinata con una voce cavernosa, squarciata da ripetuti colpi di tosse. Al sesto la saletta è occupata, e si attende che escano i detenuti del corso precedente. Azalen e Simone notano che nella grande gabbia gli uccellini defunti sono stati rimpiazzati da due nuovi venuti (vedi incontro del 31 dicembre 2012). Dopo un abbondante quarto d’ora, i detenuti escono dall’aula sciamando nel corridoio, alcuni sono del Libroforum, altri arrivano alla spicciolata dalle celle. Il bibliotecario avverte che vi sono degli assenti perché malati come Animabella e Ivan. Quando il gruppo si riunisce, Simone comunica che ha una lettera per Ivan da parte di Davide Rondoni. Antonio velocemente la prende e esce per consegnarla, prima che il giovane che sembra si sia scompensato o - come dicono i compagni - sia “uscito fuori di testa” venga ricoverato. L’aria che si respira dentro è opprimente, c’è tensione, la sofferenza è palpabile. Simone legge il resoconto e il racconto-documento Raggio numero sei promesso da Federico Riccardo Chendi, dopo la sua visita a San Vittore. Sono parole che incidono, dure, taglienti, che scoprono lo spigolo duro della crudeltà gratuita, della crudeltà eretta a sistema. 


Sono le parole che il benpensantismo preferisce smorzare o sottacere, esorcizzare sotto formule mantriche o occultare nelle pieghe del burocratese algido per addetti ai lavori. Le impressioni sono positive e i commenti nascono sul momento con frasi brevi, spezzate, perché non è il caso di fare lunghi discorsi. Antonio dice: “E’ toccante, ha centrato il problema”. Guido, venuto da poco al Libroforum, mette a fuoco la disumanità fisica. Il senso di ingiustizia e il sopruso trova forma nel breve racconto di Antonio che ha subito una punizione che gli costerà un prolungamento della pena per avere voluto prendere una boccata d’aria e avere risposto malamente a un rimprovero ingiusto. Più tardi dirà: “Volevano che chiedessi scusa, ma non chiedo scusa perché ho ragione”. Anche Matrix riconosce che il racconto descrive una realtà, e Guido rileva che è centrato e interessante: l’autore vede nel raggio di sole l’unico esile collegamento con il mondo, “il raggio di sole che scavalca le persiane, le sbarre, scavalca il muro incrostato, scavalca la tua pelle, un raggio che ti fa caldo", dicono le parole del testo. Iena propone però di cambiare il titolo e di aggiungere “barra due”, il famigerato sesto secondo: la terra di nessuno o dove nessuno vorrebbe stare.

Azalen propone di continuare a leggere il racconto di Dürrenmatt cominciato durante il precedente incontro. Si riprende con il brano della requisitoria in cui il Pubblico Ministero ricostruisce minuziosamente il delitto commesso da Alfredo Traps, cogliendo nel segno, ad eccezione di qualche insignificante dettaglio. Dopo la lettura nasce un dibattito sul senso di un testo che ha più versi interpretativi. Azalen ammette di averlo letto come una accusa al metodo della giustizia che scandagliando finisce con il creare e costruire la colpa, un dispositivo malefico e perverso. Anche l’innocente ne è travolto e finisce per convincersi di essere colpevole. 

Guido nota che il reato descritto è un atto che deliberatamente Alfredo Traps voleva commettere, si perde il confine tra il reato e ciò che non lo è, nel contesto scherzoso dove nasce. C’è un ribaltamento di prospettiva. Azalen sostiene un diverso significato: tutti sono potenzialmente colpevoli e solo un fatto fortuito li rende realmente colpevoli davanti a un tribunale. 

Simone insiste su un’ipotesi interpretativa più canonica, la legge non è in grado di sanzionare alcuni reati, che possono essere commessi al riparo di qualsiasi procedura legislativa in grado di condannarli, perché il colpevole è tecnicamente innocente. La legge non riconosce infatti la verità morale, certifica una verità processuale che è aleatoria e probabilistica. Iena conclude: “Il protagonista è colpevole di essere innocente”. Si addentra in sue considerazioni riguardanti i meccanismi della giustizia che deve codificare i comportamenti da punire, e, se non riesce a trovare la colpevolezza, si fa sempre più capillare e arzigogolata con il comma bis, ter, quater, etc.. Il senso è che il cittadino posto davanti ai raggi x della legge è comunque colpevole. 

Sei giudicato tre volte: uno per quello che hai fatto, due per quello che potevi fare e tre per quello che potrai fare una volta uscito” afferma Iena. Qualcuno accenna al cumulo delle pene che ricade su chi è caduto nelle maglie della giustizia, per reati precedenti e recidive. Anche una lieve infrazione è sanzionata con pene severe. “Dichiarati colpevole, ti do 5 anni e vai fuori”, è questo il modo ordinario di amministrare la giustizia nel nostro Paese: ti costringono a dichiararti colpevole per avere dei benefici. Uno dei detenuti cita l’esempio di un ragazzo condannato per violenza perché aveva dato uno schiaffo a una donna che si era intromessa in una lite, poi era stato scagionato, e aveva ricevuto una condanna per rissa. Dai discorsi che si accavallano si comprende come il cittadino sia strozzato dal cappio della legge. Uno dei partecipanti invita a attenersi al testo del racconto. 

Azalen legge il brano in cui è la difesa a pronunciare la sua arringa per mostrare l’innocenza dell’imputato. Questi ha sventatamente offerto all’accusa degli argomenti che lo compromettono. Ma nei fatti, la morte della presunta vittima sebbene desiderata, non è stata procurata da Traps, ma è avvenuta per circostanze fortuite sfociate in un esito infausto. La delusione tragicomica del protagonista, riluttante a scoprirsi innocente dopo avere aderito con entusiasmo alle tesi dell’accusa offre nuovi spunti al dibattito. 

Guido parla dell’attrazione e del fascino del male. La convinzione che l’uomo comune sia mediocre a confronto del delinquente viene condivisa; nel racconto di Dürrenmatt, infatti, il protagonista si rifiuta di essere considerato un innocente mediocre e preferisca attribuirsi un delitto perfetto che lo pone al di sopra della media. Iena denuncia i rischi di condannare un innocente e sostiene che il nostro sistema giudiziario si fonda sulla presunzione della colpevolezza. Simone precisa: "il nostro sistema è uno dei più garantisti", viene contestato però da Guido che lo giudica invece perverso, a fronte della mancata equiparazione dell’accusa e della difesa. Il discorso si sposta sulla severità del magistrato motivata dalla necessità di evitare il risarcimento del danno in caso di errore giudiziario. Di norma il giudice emette una condanna lieve, piuttosto che decretare il proscioglimento dell’imputato di cui non ha appurato la colpa, o fa decorrere i termini per il deposito della sentenza annullando con un colpo di spugna gli effetti dell’azione giudiziaria. 

Sono escamotage per non risarcire il danno di una carcerazione ingiusta. Qualcuno osserva che il magistrato dovrebbe essere sottoposto a dei controlli. Simone sostiene che l’autonomia della magistratura è a tutela del cittadino e va preservata anche se alcuni magistrati hanno un tale ego che ha fatto perdere loro il contatto con la vita. 

Verso la conclusione Simone legge alcune considerazioni del detenuto scrittore Vincenzo Andraous: La speranza della pazienza. In esse l’autore affronta il delicato e spinoso tema dei suicidi in carcere e si interroga sulle tante vite recise mettendo in controluce un altro senso della vita: ”una vita che è tutta da vivere sempre e comunque perché è un’avventura incerta, e incerta significa che si patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca conoscenza, dei tanti motivi che sfuggono” La mancata accettazione del dolore sottende un’assenza di saggezza, non permette di raggiungere quella falda profonda che racchiude l’essenza delle cose, l’interrogativo ultimo sul vivere (e sul morire). 

Antonio racconta a questo punto di avere provato a farla finita l’ultimo dell’anno, ma di essersi salvato perché la cintura dell’accappatoio si era spezzata. In seguito, aveva confidato la sua disperazione a un appuntato che lo aveva aiutato, parlandogli bonariamente, a uscire dal buio della disperazione. Dopo questa testimonianza drammatica e le considerazioni sul trattamento disumano riservato ai cittadini detenuti (cibo avariato, mancanza di norme igieniche, angherie, etc.) Simone conclude l’incontro con i versi di Biagio Marin sul potere benefico della parola: 

Non c’è realtà senza parole: / hanno battezzato la pietra, / le donne più dolci / il mattino e la sera / La parola dà un viso anche a chi non l’ha, / fa nascere il fiordaliso appena fa estate. Il silenzio che tace / è solo un deserto; / senz’albero né case / solo di morte esperto.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia

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