lunedì 11 marzo 2013

Dürrenmatt e alcune riflessioni sulla giustizia

Incontro del 25 febbraio 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
La poesia è il contrario della retorica e un antidoto al vizio della noia.
Azalen Tomaselli e Giorgio Cesati Cassin con i detenuti.
Anche oggi Milano, svegliata sotto un fitto nevischio, riavvia l’allegro tram tran dei giorni feriali. Azalen arriva trafelata all’appuntamento e vede Giorgio che varcata la postazione di controllo sta per sparire oltre il primo cancello. Giunta al sesto, nota l’assenza di Giocadinuovo, trasferito non si sa dove, le dicono. Si avverte un po’ di malinconia per la sua mancanza. Ogni separazione piccola o grande riporta alla mente l’instabilità e la impossibilità di impostare dei rapporti durevoli in un luogo di detenzione, e dà l’impressione di essere atomi in continuo movimento, che si avvicinano e si allontanano trasportati da forze esterne. Il carcere diventa allora il “non luogo” dove i rapporti sono instabili, perché l’esistenza è anch’essa fittizia e provvisoria. Al gruppo si sono aggiunti alcuni nuovi partecipanti. Azalen fa un preambolo sul libroforum, invitando Giorgio a leggere come di consueto il resoconto, mentre Animabella suona la chitarra. Giorgio, prendendo spunto dal testo, esorta a usare la furbizia buona, perché la violenza non paga. I versi della lirica Itaca gli strappano l’esclamazione: “Ognuno di noi deve avere la sua Itaca!”, guardando Antonio che è scoppiato in lacrime, continua: “La sua Itaca è il suo fratello gemello”. Antonio ammette: “Siamo gemelli e io, anche se sono lontano, sento se mio fratello sta male, perché siamo legatissimi” 




Giorgio racconta della sua esperienza di medico e della sua carriera brillante, ma punteggiata di difficoltà per alcuni conflitti con il suo ex primario. Un partecipante osserva che nella sua esperienza di infermiere ha incontrato molti medici, ma non riconosce in Giorgio alcuna somiglianza con questa categoria. “In genere sono più freddi e distaccati, non riescono a guardare anche l’anima”. Giorgio conferma che il lavoro del medico impone freddezza e controllo. Un nuovo partecipante domanda se la scelta della professione risponda a qualche bisogno inespresso, (così mostrerebbe la psicoanalisi che istituisce nessi tra scelte lavorative e pulsioni). Ma l’argomento dà il pretesto per esprimere un giudizio sulla classe medica, priva di empatia e indifferente al dolore. Il detenuto che aveva notato come Giorgio non si conformasse a quel cliché ammette che questo congelamento era successo anche a lui. “Lavorando al Pronto Soccorso, dopo un po’ di tempo ero diventato freddissimo al dolore”, racconta. Antonio spezza una spada in favore della categoria, e racconta con gratitudine del chirurgo che aveva operato con successo la madre affetta da un tumore al polmone. 

Giorgio ribadisce l’importanza della disidentità, perché uno può essere mille cose, e sostiene che è l’identità monocorde e granitica a produrre la sofferenza e in casi estremi la follia. Il riferimento all’identità una o plurima fa dire a Michele: “Io mi sento una nullità”. A Azalen che gli chiede di spiegare queste sue parole, risponde: “Cosa mi è servito essere tossico, mi vado a fare.. mi sono sentito una nullità perché ho trattato male mio padre e mia madre..” Si scusa con l’uditorio, rassicurato però da Iena: “Gli altri ti stanno ad ascoltare, la libertà che hai perso da tossico ti ha reso schiavo”. Un nuovo partecipante conferma: "Quando si cade in una dipendenza è una perdita di libertà"

Iena sottolinea la necessità di controllare le emozioni in ogni pratica professionale, soprattutto quando si ha la facoltà e la responsabilità di interagire. A conferma cita l’esempio del chirurgo e del giudice. “Il giudice il più delle volte non è emotivamente distaccato, eppure gestisce un potere immenso, può decidere, anche se altre persone hanno deciso con il patteggiamento; esercita un potere assoluto e non lo esercita in modo distaccato, non compie il suo lavoro in modo ottimale.” Giorgio corregge ”Se ci sono delle attenuanti, il giudice le sente dentro di sé” Iena replica: "A differenza del P.M. il giudice di te non sa nulla, sa solo quello che sta scritto. La domanda che ti rivolge è: «Come ti dichiari?»"

Giorgio porta il caso della testimonianza in cui ognuno asserisce una verità diversa. Per qualcuno i magistrati fanno di tutta l’erba un fascio e esercitano un potere immenso, ma Antonio contesta queste semplificazioni, perché non si può mettere sullo stesso piano chi ha accoltellato e chi ha commesso un reato di stalking

Azalen propone di leggere un racconto di Dürrenmatt, intitolato La panne in cui si mostra come tutti gli uomini siano colpevoli, se sottoposti alla lente d’ingrandimento di una giustizia etica E’ la storia paradossale di un rappresentante di articoli tessili, Alfredo Traps, che, a seguito di una panne, si imbatte in un curioso gruppo di legulei a riposo. Questi, per passatempo, istruiscono dei processi contro i forestieri che capitano loro a tiro nel paese dove dimorano. Nel dipanarsi della storia si comprende come anche un uomo comune e incensurato, come il protagonista del racconto, possa assumere i connotati equivoci dell’assassino meritevole di una condanna esemplare, se sottoposto a un’indagine che metta a nudo le intenzioni e i processi reconditi dei suoi comportamenti. La conclusione (tragica) fa riflettere sul potere di una ragione che assunta nella sua articolazione incontrovertibile diventa un dispositivo micidiale. 

Come in altri suoi romanzi, l'autore dimostra la farraginosità e la sostanziale inutilità dei meccanismi investigativi e giudiziari dello stato, sostanzialmente incapaci di giungere alla verità umana. Viceversa, alcuni comportamenti, di fatto umanamente negativi, non vengono percepiti come "colpevoli" dalla giustizia umana. 

Il caso del protagonista, appunto, che più o meno inconsapevolmente ha provocato la morte di un uomo è esplicativo della incommensurabilità della colpa morale e della colpa giudiziaria. Traps è, infatti, moralmente colpevole, tuttavia il suo delitto, tecnicamente, non sarebbe dimostrabile né tantomeno punibile da un vero tribunale.

È proprio Zorn, il pubblico ministero che nel gioco accuserà Traps, ad affermare che si tratta di un delitto “perpetrato in modo così raffinato da essere brillantemente sfuggito, è ovvio, alla giustizia dello stato”. In quell’inciso “è ovvio” c’è tutto il pessimismo di Dürrenmatt nei confronti della giustizia, nel suo intero corso, dalla indagine fino al processo.

Ma sono proprio gli attori di questo bizzarro processo che, fra una risata e l’altra, arrivano comunque alla verità, una verità esclusivamente umana, etica, non certo processuale poiché, come afferma uno di loro, “noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi.” Il giudizio, quindi, solo se liberato dagli ingranaggi del sistema giustizia può arrivare al cuore della verità, poiché la giustizia vera non si identifica con quella voluta dai legislatori; le regole, le norme che i commissariati, le prefetture, i tribunali impongono talvolta si scontrano con un autentico spirito di giustizia. 

Dopo la lettura di un brano tratto da questo racconto, Azalen chiede a Animabella di concludere con un brano musicale, ma a causa della chitarra scordata si soprassiede e, dopo uno scambio di saluti, si pone fine all’incontro.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia

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