Il perdono è diventato la cifra di molti fatti cruenti. In una società iperedonistica in cui si sono allentati molti freni morali e in cui la violenza appare “gratuita” e tende a esplodere nelle forme più virulente e insensate, i richiami al perdono sono divenuti sempre più frequenti, scontati e rituali.
Di norma seguono macchinalmente lo stupore di fronte a azioni aberranti. Sintomo, - a dire di tanti - di imbarbarimento e di una crescente conflittualità sociale. Forse la frequenza di questi appelli (al perdono o al rifiuto di offrire un gesto simbolico di riconciliazione) cela la necessità di dare senso alla dis-umanità del male, suggella - come un corollario – una violazione, che ci interroga sulla possibilità di accoglierlo in mezzo a noi.
In altri termini, di includerlo, non nella sua essenza metafisica e valoriale, ma nel suo riprodursi quotidiano e tangibile, in noi e in chi ci è “prossimo”. Il male lo “proiettiamo” quasi sempre nell’altro: nemico, straniero, potenziale aggressore, spesso ritenuto colpevole di espropriarci di diritti e di beni che sentiamo esclusivamente nostri (casa, lavoro, territorio).
Di norma seguono macchinalmente lo stupore di fronte a azioni aberranti. Sintomo, - a dire di tanti - di imbarbarimento e di una crescente conflittualità sociale. Forse la frequenza di questi appelli (al perdono o al rifiuto di offrire un gesto simbolico di riconciliazione) cela la necessità di dare senso alla dis-umanità del male, suggella - come un corollario – una violazione, che ci interroga sulla possibilità di accoglierlo in mezzo a noi.
In altri termini, di includerlo, non nella sua essenza metafisica e valoriale, ma nel suo riprodursi quotidiano e tangibile, in noi e in chi ci è “prossimo”. Il male lo “proiettiamo” quasi sempre nell’altro: nemico, straniero, potenziale aggressore, spesso ritenuto colpevole di espropriarci di diritti e di beni che sentiamo esclusivamente nostri (casa, lavoro, territorio).