mercoledì 30 gennaio 2013

Franco Loi e la poesia per conoscere se stessi

Incontro del 21 gennaio 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
Franco Loi festeggia il suo ottantatreesimo compleanno con i detenuti di San Vittore.
Franco Loi, Iginia Busisi Scaglia, Giacomo Scaglia, Azalen Tomaselli, Giorgio Cesati Cassin e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Milano è in una bolla grigia, l’aria è fredda. Al bar Azalen trova Iginia con Giacomo Scaglia, poi sopraggiungono Franco Loi, un signore gentile, e Giorgio Cesati Cassin. Assieme varcano il portone di San Vittore. Un agente accompagna al sesto la troupe del Libroforum, dove tutto è predisposto. Simone arriva con leggero ritardo, ha dimenticato la chitarra. La chitarra “scordata” è portata dal deposito e consegnata a Animabella che ne trae come sempre alcune note melanconiche. Dopo la lettura rituale del resoconto (questa volta fatta da Azalen) la parola passa a Franco Loi che esorta i partecipanti a conoscere se stessi (Γνῶθι σεαυτόν). Legge una breve lirica su Dio e aggiunge a commento “Quando si parla di Dio, c’è sempre questo errore, si dice: Lui non si fa conoscere, ma noi cosa sappiamo di noi stessi?” Poi chiarisce: “Pensare se stessi vuol dire stare attenti perché anche l’albero e la pietra emanano delle sensazioni, se andate sulla spiaggia vedete delle donne che raccolgono un sasso e l’accarezzano. Cosa accade dentro di loro?" Prosegue poi con una bordata nei riguardi dei medici che non si occupano dell’anima: “Mi fanno ridere certi medici che quando incontrano il paziente prescrivono la lastra e poi dicono non c’è niente, mentre Ippocrate chiedeva: «Cosa hai sognato questa notte? Hai incontrato uno che ti ha picchiato e era odioso»”. Alla quale Giorgio, rimasto in silenzio, replica: “Io sono uno spirito goliardico, un dissacratore, ma devo dire che oggi Ippocrate perderebbe tutti i pazienti". Poi precisa: “Io, quando avevo un paziente prima lo operavo e dopo mi occupavo dell’anima”. 



Franco Loi cita Jung e spiega che se siamo capaci di conoscere noi stessi, dopo un po’ci si rivela qualcosa e non si sa cosa sia. Infine sostiene: “La teologia è fatta dall’uomo, il regno dei cieli è in voi e tra voi. Cosa conosciamo del regno dei cieli? Io ho scoperto che anch’io sono carogna”. Racconta a questo punto alcuni aneddoti della sua vita: l’amicizia con Renato Curcio, la sua fede nel comunismo, culminata nell’iscrizione alla federazione comunista, da cui è uscito nel ’54 (Lo stesso anno di Calvino, nota Giorgio Cesati). 

E’ l’esperienza in prigione a calamitare l’attenzione dei suoi ascoltatori, perché Franco Loi ne sottolinea l’utilità: "se si è attenti si ha una spinta a conoscersi, c’è gente straordinaria anche tra i carcerieri". A chi glielo domanda spiega di aver fondato un gruppo politico da cui poi sono nate le brigate rosse. C’era un agente di polizia infiltrato che ha portato all’arresto di tutto il gruppo. Si sofferma sull’interrogatorio da parte del giudice, quando in anni lontani venne convocato a Venezia, perché non trovavano il capo delle brigate rosse e ricorda l’avvertimento della stessa autorità giudiziaria: “Se va avanti così l’arresto”. E sulla sua replica pronta “Se dico la verità mi arresta?” Rivela la conclusione della sua vicenda con la condanna per direttissima a un anno senza condizionale. Sono parole forti quelle di Franco Loi quando descrive la sua cella dove era scritto, raspato con le unghie o con un sasso: “Signore dammi la libertà”. 

O rievoca l’incontro con il carceriere che gli porta “tre formaggini, pane e un bicchiere di vino” ritirando il piatto di latta dove c’era il riso nero e una bistecca, che lui disgustato aveva respinto, dopo averlo redarguito severamente: “Lei stia zitto, perché non si può parlare con i carcerieri” Franco Loi lo ripete come un mantra: “La gente non è come sembra e io non sono quello che sembro. Siamo trascinati dagli impulsi del corpo. Il corpo ha delle sue pulsazioni e una sua consapevolezza, ha una sua memoria, il cuore ha una sua memoria. Se si ha conoscenza di sé si hanno esperienze straordinarie. Quello che ci serve nella vita è sapere chi siamo”. Giocadinuovo approva: “Qua dentro scopri delle cose che prima le lasciavi, perché prima con la velocità della vita..” e si ferma come a seguire un suo filo di pensiero. Giorgio Cesati chiede: “Sul supporto cartaceo questi pensieri trovano il loro posto?” Il nesso tra arte e vita dà il là per parlare della poesia. 

L’arte continua Franco Loi non è una cosa scolastica, la lingua l’hanno inventata le persone, la stessa parola “poesia”, viene da poïesis (ποίησις; fare), il poeta è colui che fa, spiega, ma poi mette subito l’accento sulla musicalità. La parola poetica si articola con i suoni dell’emozione, deve essere orale, è il suono a esprimere l’emozione di ciò che ci percorre dentro e non si riesce a dire. "Da bambini facevamo un gioco, ci mettevamo in cerchio e ognuno doveva dire una parola, si ripeteva fino a perderne il senso". Quando si scrive una poesia si ascolta dentro di noi il ritmo, è come sentire una musica, non sono solo le parole è il suono. Quando scrivi, trasmetti da solista ma poi quella parola si declina in mille modi. Per ciascuno è una cosa diversa. Un partecipante, Bomber, cita il Cinque maggio, specificando di essere originario del Comasco, "la terra" di Alessandro Manzoni

Franco Loi motiva la sua scelta del vernacolo, ripercorrendo una breve storia dell’Italia del Dopoguerra in cui la promozione sociale è avvenuta per parlare l’Italiano. Si intreccia un dialogo fitto con un partecipante, il signor K, che parla dell’uso stretto del meneghino tra alcuni detenuti citando un termine dialettale "l’erburin", poi altri propongono parole quasi dimenticate come “slavaggià”, “cunegina”, qualcuno nota gli influssi del lodigiano o della Brianza sulla parlata milanese e nota che anche Milano ha vari usi dialettali, in base alle zone. E’ una ricerca di radici per riconoscersi o per identificarsi. Franco Loi cita Graziadio Isaia Ascoli (glottologo goriziano dell’Ottocento) e la sua tesi sul dialetto che è la lingua reale: cioè la lingua parlata da un popolo. 

Dopo questo divertito scambio sul dialetto l’ospite chiede a Animabella, che suonava assorto, di fargli una domanda. "Quanti anni hai?" gli fa lui di rimando. Franco Loi risponde "ne ho ottantatré e faccio il compleanno oggi", tutti i partecipanti gli fanno gli auguri. Il poeta legge un “racconto in versi” che riporta ai suoi quindici anni e al ricordo di una novizia che si spogliava davanti la finestra aperta per fare il bagno nel mese di maggio. Ricrea l’atmosfera di quegli anni lontani. Scorrono le immagini vivide dei ragazzi che spiano dalla finestra della villa di fronte al convitto, dei ragazzini arrampicati sul muretto, curiosi di vedere la ragazza, e dell’attesa e dell’eccitazione per questa visione straordinaria in tempi in cui le donne non si mostravano per pudore e per i dettami di una morale rigida. Franco Loi racconta della Mariuccia, la ragazzina che c’era nella pensione dove ha vissuto da piccolo, quando la sua famiglia si era trasferita a Milano. 

Simone, quasi a ricapitolare tutte le considerazioni sul rapporto tra l’arte e la vita, cita Proust di La recherche, Munch, e ripete una sua convinzione sul fatto che la malattia, il dolore possono essere fondamentali e aprire possibilità di capire una nuova verità e di scoprire qualcosa di diverso, poi invita (su richiesta di un giovane detenuto) Iginia Busisi Scaglia a leggere una sua lirica intitolata La neve. La poetessa, a sua volta, premette: "le mie (poesie) sono molto semplici, nascono dal bisogno di fermare e tradurre in parole un’esperienza". 

Franco Loi a questo punto racconta della sua amicizia con Don Milani al quale un prete cinese, che era andato a trovarlo aveva chiesto della legna per costruire un recinto per tenere le galline e dare da mangiare ai suoi ragazzi. “Ah allora vuoi che rubi!” gli aveva risposto Don Milani, “perché il demanio è pubblico”. Il prete mortificato aveva cercato di giustificarsi, ma don Milani aveva chiamato un ragazzo e gli aveva ordinato: “Vieni qui, vai e vai a rubare perché mi serve per la vita!” E’ bene quando si ruba per il bene comune. “In vari momenti della vita facciamo tante cose non giuste, l’importante è che poi riflettiamo, cosa vuol dire rubare, e diciamo a noi stessi: «Non sono stato capace di controllarmi»".
Franco Loi parla di un ragazzo di Opera, incolpato ingiustamente di omicidio perché era rimasto sul luogo del delitto, mentre i colpevoli erano scappati via. “La carcerazione non deve diventare un male dentro di voi, Dio è un filo di spada che ti passa il cuore e devi avere l’allegria di essere nel tuo tormento". Azalen chiede a Animabella di cantare una canzone, alla sua voce si unisce quella dei partecipanti, l’atmosfera si fa più lieve. Prima di lasciare la cella, il poeta stringe la mano e si avvicina ai partecipanti per scambiare qualche parola, dare un po’ di conforto e ascoltare alcune storie, raccontate a volo..

Uscito sul corridoio si accosta a una cella sorvegliata a vista intrattenendosi un momento a parlare con un detenuto, poi il gruppo sciama via con nel cuore il suono delle tante cose dette e ascoltate.

Dal prologo di Una partita a scacchi di Giuseppe Giacosa
Noi poeti, sovente, non siam noi che scriviamo,È il vento che fa un fremito correr di ramo in ramo,È una canzon perduta che pel capo ci frulla,È l'aroma d'un zingaro, è un'ombra, è tutto, è nulla,È un lembo della veste di persona sottile,È la pioggia monotona che scroscia nel cortile,È la poltrona morbida come sera d'estate,È il sole che festevole picchia alle vetrate,È delle cose esterne la varia litania,Che fa' rider Ariosto e pianger Geremia.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia

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