Articolo 27: Documentario sulle carceri italiane
un film di Laura Fazzini, Elia Agosti e Luca Gaddini
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”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”,
con questa citazione del terzo comma dell’art 27, con cui si bandisce ogni trattamento disumano e crudele inizia il film di un viaggio nell’universo carcere visitato con il passo degli osservatori, i registi Laura Fazzini, Elia Agosti e Luca Gaddini che intendono ritrarne aspetti anche inediti e poco conosciuti. Questo, in sintesi, il senso del loro lavoro documentaristico che mette a contatto il cittadino comune con una realtà complessa e sfaccettata come quella carceraria, senza scivolare nella facile retorica o nel pregiudizio. Articolo 27, come precisa Laura Fazzini, è "destinato a informare in primis detenuti e studenti" mettendo a fuoco le contraddizioni di un sistema articolato dove i tentativi di adeguare le condizioni detentive a criteri di rispetto per la dignità umana (art. 27 cost.) convivono con modelli custodialistici e mortificanti (e pertanto criminogeni) di tale dignità. Attraverso le numerose interviste i registi evidenziano il paradosso di un ordinamento penitenziario più indirizzato a esercitare un controllo che a adottare strumenti per inserire o reinserire gli ex detenuti nella società civile. Significativa a questo proposito l’intervista di denuncia dell’effetto a volte peggiorativo e contrario a ogni riscatto sociale della reclusione, nel nostro ordinamento penitenziario. Ciò che emerge è un ritratto poco confortante.
Troppo poco si investe in Italia sulla riabilitazione e sulla valenza rieducativa della pena. Il ritorno alla libertà, poi, per chi è privo di sostegno umano difficilmente può tradursi nella ripresa di una vita lavorativa normale. Il rischio della recidiva quando il detenuto non ha una famiglia pronta a aiutarlo e non dispone di risorse economiche appare altissimo, come confermano gli psicologi del carcere di Rebibbia Valeria Sica e Guido Lucente, soprattutto quando è in gioco la necessità della sopravvivenza. Si innesca per il concorso di molteplici fattori un circolo vizioso di marginalità e condotte delinquenziali che aumenta in modo esponenziale la popolazione carceraria con gli effetti di sovraffollamento spesso denunciati. Aiutare i detenuti non è una pratica di altruismo buonista è il mezzo di cui dispone una società giusta per ottenere equilibrio e benessere. La sicurezza dei cittadini non può prescindere pertanto da un’opera di riduzione del disagio e della povertà.
Il documentario passa in rassegna alcune situazioni di eccellenza nel panorama variegato delle carceri italiane: esperienze di lavoro, corsi di formazione e di istruzione rivolti anche ai tanti soggetti extracomunitari che non hanno avuto l’opportunità di frequentare le scuole nel nostro paese e a soggetti disadattati e meno fortunati per colmare il divario culturale e dare opportunità di lavoro. I corsi affermano gli educatori riducono del 20% il rischio della recidiva nei detenuti. Purtroppo, hanno il limite del carattere volontaristico e non organico, legato a iniziative isolate sul territorio. Il racconto di una detenuta passata a un regime di semilibertà disegna una mappa di istituti penitenziari in cui vigono regolamenti e condizioni esistenziali caratterizzati da forti disparità. Nelle intervista alla detenuta in art. 21 si evidenzia invece la possibilità di costruire percorsi positivi per chi deve scontare una condanna.
Il film documenta le molte forme di disagio che affliggono il nostro sistema penitenziario, come quelle espresse dai poliziotti penitenziari che segnalano carenze nella formazione e nell’aggiornamento essendo sottoposti a un lavoro usurante. E dei magistrati di sorveglianza oberati di lavoro, solo 166 per più di 300.000 istanze all’anno. Il diritto al lavoro diventa privilegio per pochi, nonostante sia obbligatorio per tutti i condannati in via definitiva, solo il 20% della popolazione carceraria ne usufruisce, con una retribuzione tra i 60 euro mensili di un part time fino ai 200 di un tempo pieno, considerato che parte di quello che guadagna viene trattenuto per pagare le sue spese.
Il rischio di implosione è sempre in agguato in quegli istituti di pena che hanno ore d’aria limitate. E poi ancora condizioni vessatorie, scarsità di cibo, ora che la scure finanziaria si è abbattuta anche sul sistema penitenziario. Insomma, attraverso le varie voci (magistrati, docenti di Diritto penale, poliziotti, educatori, direttori delle carceri, detenuti) e attraverso le varie realtà documentate su tutto il territorio, il documentario apre le porte e i cancelli di molti istituti carcerari. Porta alla ribalta uomini e donne che i più vorrebbero incasellare come diversi e escludere da ogni tipo di contatto. Il carcere serve anche a saldare i conti esercitando una vendetta istituzionalizzata perché irrogata dallo Stato e a curare la paura dell’altro, più che a esercitare un’efficace azione correttiva per un’effettiva reintegrazione degli autori di reati.
Sotto alcuni aspetti, nella sua funzione afflittiva, la galera protrae nei tempi moderni il rito vittimario caratteristico delle società arcaiche che sceglievano ritualmente un capro espiatorio su cui proiettare le proprie colpe per propiziarsi le divinità o il fato. Senza, però, la sacralizzazione della vittima che viene nella nostra società esclusa per eliminare i rischi del contagio. Solo riguadagnando le fasce deboli attraverso una seria azione riformatrice si può vincere la difficile battaglia per la giustizia e per la libertà.
Il documentario Articolo 27, si conclude con le parole di una delle detenute intervistate in carcere e che alla fine del film torna in libertà: "Tutti nella vita possono sbagliare, può succedere a tutti".
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