martedì 3 dicembre 2013

Agota Kristof e l'abitudine alla sofferenza

Incontro del 11 novembre 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
Aiutare gli altri, ma a distanza o aiutare gli altri esponendosi?
Azalen Tomaselli, Giorgio Cesati Cassin e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Azalen e Simone arrivano in ritardo. E' una bella giornata, il cielo blu e il sole caldo hanno spazzato via il tedio della caligine e della pioggia recente. E' l'estate di San Martino che avvolge in un tiepido guscio la città. All'arrivo al sesto secondo, trovano Giorgio Cesati Cassin intento a conversare con il gruppo del Libroforum; si allarga il giro delle sedie e Giorgio, su invito di Azalen, legge il resoconto. La lettura suscita commenti e John racconta l'episodio del marocchino, vittima di maltrattamenti da parte dei concellini, scappato dalla sua cella con il lenzuolo e la coperta addosso, e invitato perentoriamente a rientrarvi dagli agenti. E' malmenato dai suoi stessi compagni, sotto gli occhi indifferenti del personale penitenziario che assiste al pestaggio, senza sedare la rissa. John sostiene che non bisogna tacere, mentre i compagni ritengono inutile parlarne. Proprio questa visione stoica spinge Giorgio a raccontare la trama del primo libro di Agota Kristof, una scrittrice ungherese morta nel 2011, autrice della Trilogia della città di K. 

Il romanzo Il grande quaderno racconta la storia di due gemelli affidati dalla madre alla nonna, una donna crudele che infligge loro ogni genere di punizioni. I bambini scrivono su un quaderno le sevizie a cui sono sottoposti e si allenano a sopportarle infliggendosele reciprocamente fino a diventare insensibili al dolore fisico e morale. E' un'educazione rovesciata, indotta da un contesto sociale e familiare degradato e disumano (il romanzo è ambientato nell'Europa dell'Est, al tempo della guerra bosniaca. Giorgio legge uno dei commenti del filosofo sociale Slavoj Žižek, sul trittico della Kristof: 
Here I stand – questo è quello che mi piacerebbe essere: un mostro etico privo di empatia, che fa quello che deve essere fatto con una strana coincidenza di cieca spontaneità e distanza riflessiva, che aiuta gli altri evitandone la disgustosa prossimità. Con gente come questa, il mondo sarebbe un luogo piacevole in cui il sentimentalismo sarebbe sostituito da una passione fredda e crudele. 

Giorgio, a margine, precisa che è necessario fare il bene senza farsi coinvolgere, teorizzando l'ossimoro della empatia distaccata e a riprova porta l'esempio del barbone che ha una sua filosofia di vita. 

Azalen propone di leggere nuovamente il testo di Gio. ma l'argomento non è accantonato perché Simone invita Giorgio a spiegare la sua idea di empatia e lui replica sostenendo la sua tesi della giusta distanza, precisando: ”Quando do l'elemosina provo un'empatia verso l'uomo che mi tende la mano, sento il bisogno di aiutarlo, soddisfo una mia necessità, gli metto una banconota e me ne vado”. Di fronte allo sconcerto, suscitato dalle sua parole, rilancia: "Provate a capire perché alcune persone cercano il contatto"... 

Gio risponde: “Qui si arriva tutti prevenuti, il comportamento dipende dall'indole” e allude alla sua propensione a aiutare, ma aggiunge “Chi poteva dare un supporto anche economicamente mi andava contro, perché aiutavo chi era alcolizzato cronico, cocainomane, o aiuto uno nato in Egitto che non è capace di aggiustarsi il letto, lo devo istruire. Lo devo forse abbandonare?” chiede. Per chi non ha, c'è un aiuto economico e morale. 

Zero replica: “In questo ambiente, no. In questo contesto dobbiamo avere una persona che ci rispetti, viviamo in sei metri per due, la mia pulizia si ripercuote sulla tua, la mia educazione influisce sul tuo umore: non posso avere una pena di otto mesi e piangere tutto il giorno, rispetto a chi ha una pena di vent'anni. E' soggettivo", conclude, "io mi faccio coinvolgere, tengo la distanza in modo diverso, mi faccio toccare dai sentimenti. Sono maturato in alcune cose come: non dare denaro; se vedi qualcuno, ti avvicini e parli, ti informi se ci sono centri per la beneficenza. Il sentimento inquina, la giustizia può essere il dovere”. 

Giorgio sostiene di fare il bene per soddisfare una propria esigenza, è una necessità etica, "ma mi tengo lontano" e critica le persone "troppo appiccicose che fanno morire con la loro presenza". 

Un giovane partecipante, a sua volta interpellato sulla questione, risponde che in carcere non c'è lo stesso modo di filtrare i comportamenti, come quando si è fuori, "bisogna bypassare i momenti brutti", quando subentrano certi stati d'animo si cerca di avere più empatia con chi ci somiglia di più. Poi soggiunge: "In linea di principio mi definisco una persona generosa che non va oltre". 

Giorgio gli richiama il suo racconto di uno scoppio di pianto, e della possibilità di trovare qualcuno che prende a cuore il problema. Qualcun altro osserva: "se non trovi l'empatia rimani scottato". Giorgio riprende dicendo: “Piangi perché non te ne vergogni ma gioca molto un bilanciamento, se non si è distaccati e se ti fai coinvolgere dal suo annegamento, come fai a aiutare?” 

John che ha ascoltato in silenzio dice "Sulla mia esperienza e sulla mia maturità di vita, da 19 anni sono rimasto senza genitori vedo che qui le persone hanno bisogno di essere consolate. Io rispetto tutti, non son razzista, qui ci sono gay e transessuali, ci sono molte persone che cercano uno sfogo. Per me è meno pesante, la prima volta è molto dura, la seconda e la terza o la quarta, sai già come comportarti in cella. Ho creato amicizie forti, che sono rimaste anche fuori, che spartivano anche la metà del panino. In questo ambiente ti fai le paranoie". 

Vince rivela di impiegare molto prima di dare confidenza e “prima di parlare di me, ma a chi mi chiedeva aiuto l'ho sempre dato". Ha cercato di tenere distanti certe persone che si proclamano amiche ma non si sono dimostrate tali. 

Giorgio rilancia la domanda sul perché proprio in carcere il distacco empatico sia utile. "Tu aiuti per te, perché provi un benessere, tutto finisce lì. L'angustia del luogo impone una difesa, richiede di farsi scivolare le cose addosso". Ma Zero si interroga: "di fronte alla sofferenza come si fa a non piangere insieme?". 

Simone fautore di un'empatia tout court sostiene che la distanza preclude la possibilità di creare legami e che condanna prima alla solitudine e poi all'autarchia. Fa notare che la distanza è spesso legata alla paura di mettersi realmente in gioco nelle relazioni, al desiderio di non rendersi vulnerabile, perché avverte, legarsi ci espone a dei rischi. Azalen sostiene che al fondo dell'empatia c'è la capacità di vedere nell'altro un riflesso di sé, di immedesimarsi e di rispecchiare quello che prova nell'anima. 

L'empatia è un solvente universale, sostiene lo psichiatra Simon Baron-Cohen, qualunque problema immerso nell'empatia diventa solubile. 

La discussione si è protratta oltre il termine e l'agente invita i partecipanti a concludere l'incontro.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia 

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