John Fante, un adolescente ribelle.
Azalen Tomaselli e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
L’estate è esplosa e il caldo afoso
preme su Milano. La città non si è spopolata, però, anche per
effetto della crisi, e le strade risuonano del traffico di sempre. A
San Vittore l’aula è vuota. Dopo un po’, chiamati dagli agenti e
dal giovane bibliotecario, arrivano alla spicciolata quattro
partecipanti. “L’aria d’estate è indispensabile”, dicono, “e
poi non sappiamo mai se venite”. Iena mi sussurra che la prossima
volta mi darà uno scritto per Giorgio. Poi si legge il resoconto,
troppo asciutto, della volta precedente.
Azalen propone un racconto di John Fante, tratto da
Rapimento in famiglia e altri racconti, Il Sole 24 Ore, 2011 (
titolo originale Daga Red, 1940).
John Fante, figlio di
italiani della prima generazione arrivati in America nei primi anni
del Novecento, scatta con questo e altri racconti, una serie di
istantanee sulla storia della sua famiglia. La canzonetta scema
di mia madre, racconta un episodio dell’adolescenza dello
scrittore italo americano: il furto del carburo da un negozio, messo
a segno con un suo coetaneo.
La vicenda si sviluppa in
tre tempi: la scoperta dei due ladruncoli con l’intervento
immediato della polizia che conduce i due ragazzetti in galera.
L’arrivo dei due genitori che impartiscono una punizione esemplare
e un terzo atto in cui il protagonista cerca in tutti i modi di
convincere la madre di avere commesso il furto, senza riuscirci. La
conclusione è la ripassata di botte da parte di suo padre, mentre la
madre persiste nella convinzione che il figlio non può aver fatto
quello che le ha confessato.
Il racconto dà luogo a una
discussione sul significato che lo scrittore ha voluto comunicare.
Iena mette a fuoco il bisogno
dell’adolescente di affermare il proprio: “Io esisto”.
La ribellione è il modo per obbligare gli altri a accorgersi della
sua esistenza e del suo prendere le distanze dalla propria famiglia.
Azalen segnala l’opposto comportamento di padre e madre
riguardo a un unico fatto oggettivo. Uno
dei partecipanti racconta che, nella sua esperienza, il ruolo più
cattivo e invadente lo esercitava la madre.”Mio padre non mi ha mai
toccato” dice, “mentre mia madre me le dava”.
Simone a questo punto interviene
asserendo che il nucleo del racconto è l’identità. Il
protagonista nel racconto cerca di costruirsi un’identità da
“duro”, naturalmente fasulla e sconfessata dalla realtà (subisce
le cinghiate del padre che gli fanno bruciare le natiche come una
stufa). E si rammarica del fatto che la madre si rifiuti di
credergli. Il racconto suggerisce collegamenti con i ragazzini che si
comportano da bulli per mostrare di esistere e per farsi notare dai
compagni.
Poi un
partecipante, a bruciapelo, chiede a un compagno, se stia bene,
vedendolo un po’ rallentato nei riflessi. Si parla delle terapie
farmacologiche alle quali, spesso, alcuni detenuti devono sottoporsi.
Azalen chiede al giovane se l’argomento lo
disturbi, lui risponde che non gli dispiace parlarne.
Infine si parla dei partecipanti che sono andati via, di
alcuni si hanno notizie perché hanno scritto e raccontato della loro
nuova destinazione. Il discorso cade inevitabilmente sull’universo
variegato del nostro sistema penitenziario, connotato da tante
realtà. Molte delle quali non offrono nessuna attività di recupero
e sono esclusivamente luoghi di reclusione. In altri, la migliore
formazione del personale penitenziario rende meno dura la
carcerazione. E ‘ un universo estremamente articolato e
frammentato con realtà tra loro difformi e spesso non confrontabili
tra di loro. All’oggettività della pena si aggregano fattori e
circostanze che ne modificano la severità. I saluti e le strette di
mano pongono fine all’incontro.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia
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