martedì 23 luglio 2013

Il corridoio del grande albergo

Incontro del 15 luglio 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
La vergogna della vergogna. 
Azalen Tomaselli e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Caldo afoso su Milano. Al sesto il gruppo dei partecipanti si è sfoltito dopo esodi e trasferimenti. Simone legge il resoconto mentre il sole dardeggia, mitigato di tanto, in tanto, da un soffio d’aria che entra dalle finestre spalancate.. Iena scrive su un foglio la sua risposta alla lettera di Giorgio Cesati, mentre Azalen propone un racconto di Dino Buzzati: Il corridoio del grande albergo, La boutique del mistero, collana Oscar Mondadori. Narra del cliente di un albergo il quale, durante la notte, esce dalla camera per recarsi alla toilette. Ma, improvvisamente, giunto quasi all’altezza della porta, si accorge con disappunto che un altro cliente vi sta arrivando dal lato opposto. Preso da un immotivato imbarazzo, passa oltre. La notte trascorre nel ripetuto tentativo di entrare nella toilette, senza doversi esporre allo sguardo imbarazzante dell’altro, che simmetricamente agisce nell’identico modo. La luce del mattino rivelerà una sconcertante verità: quasi tutti i clienti dell’albergo hanno trascorso lunghe ore, rincantucciati negli anditi delle cento e cento porte del corridoio, “distrutti come dopo una notte di battaglia”. Simone chiede ai partecipanti di esprimere una loro opinione su questo racconto, in apparenza giocato sull’assurdo e se vi ravvisino qualche lato reale del comportamento. 



Azalen risponde che forse la chiave di lettura è il conformismo, per cui ognuno si conforma a gesti e consuetudini accettati dalla maggioranza. Simone sostiene che il nucleo del racconto sia invece la vergogna. Un partecipante soggiunge che il tema è la vergogna della vergogna. Il discorso va a quei comportamenti che sono condannati e si parla di Berlusconi e delle sue serate. La percezione dell’imbarazzo è relativa e legata al gusto e a un sistema di valori soggettivo. 

Un partecipante fa un discorso sulla conflittualità che regola i rapporti tra le persone, anche in carcere, e sulla mancanza del rispetto verso l’umanità che è intangibile e non dovrebbe essere sottoposto a alcuna forma di giudizio. Il tema del giudizio apre a un’altra serie di considerazioni su quanto esso condizioni. Lo stesso partecipante interviene in modo un po’ farraginoso e offeso per la risposta di un suo compagno che gli dice “Tu hai la guerra in testa” e esce dalla cella. 

Simone chiede allora quanto sia importante il giudizio degli altri. Le risposte sono distanti: per un nuovo partecipante, W., non è importante, mentre Zero sostiene che è essenziale piacere e farsi accettare per stare assieme, e riferirsi al giudizio della società per valutare le azioni. Simone precisa che secondo lui piacere non è solo conformarsi, ma risultare simpatici o antipatici. La domanda implicita è: cosa siamo disposti a fare per piacere? Si tocca a questo punto il tema dell’identità. W. rileva l’importanza di essere se stessi, “viene tutto da sé, non lo cambio (me stesso)”, osserva. Simone di rimbalzo, collega il tema del compiacere all’ottenere l’approvazione delle persone che per noi hanno valore. Azalen aggiunge: gli altri per noi significativi. 

Un partecipante sostiene che gli ingredienti devono essere educazione e rispetto e, a Simone che gli chiede se piacere significhi tradire se stessi, replica: “Non c’è (il me stesso)”. Zero è in disaccordo e afferma: “Si può cercare di fare accadere le cose, io ho un’identità, ho anche dei limiti”. Simone cita la maschera, in Pirandello. “Chi sono i noi stessi? L’identità è una proiezione di quello che crediamo di essere, è una questione di salubrità, la monodimensionalità è illusoria. Le persone si vincolano e non si rendono libere. Piuttosto occorrerebbe accettare che noi non mentiamo, la nostra identità è una delle tante possibili, ognuno percepisce una parte vera e autentica di noi. Questo ci renderebbe più liberi”. 

Iena che ha smesso di scrivere la lettera a Giorgio, interviene nel dibattito, affermando che l’inferiorità rende l’uomo attaccabile , fa l’esempio del ladro e della mente criminale che riceve rispetto, è idolatrata per quello che riesce a fare, se però sbaglia, perde tutto. Esistono codici e culture fondati sulla volontà di dominio: "Mi impongo, cerco di essere più forte e mi adatto al ruolo che gli altri mi assegnano. Abbiamo un’anima e 10.000 facce", ma afferma: "Noi non siamo i nostri errori!

Azalen richiama la cultura fondata sulla competizione che non ammette l’esistenza di deboli, indicando nelle società rurali la maggiore integrazione degli individui non dotati. Come lo scemo del villaggio che era incluso nella comunità e accolto sebbene poco produttivo. Ridicolizzare significa uccidere ribadisce Iena che racconta la sua esperienza carceraria, mimando i cambiamenti dal primo stato di dolore e vergogna (si alza in piedi, nel mezzo della cella, e comincia a camminare a testa bassa senza rivolgere lo sguardo a nessuno) al graduale adattamento a un mondo regolato da diversi valori (poi cammina con il petto eccessivamente in fuori mostrando una falsa sicumera, per poi tornare a camminare come una persona normale). 

Alla fine della discussione è F. a lamentarsi del vuoto e della tristezza che lo stanno uccidendo e a chiedere la possibilità di avere un po’ della sua musica. Vorrei almeno suonare la mia armonica, ma come posso fare per ottenerlo? I saluti e le strette di mano pongono termine all’incontro.   

* I nomi dei detenuti sono di fantasia 

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