sabato 27 luglio 2013

Il perdono responsabile

Il perdono responsabile - Recensione del libro di Gherardo Colombo
di Azalen Tomaselli 

Il perdono è diventato la cifra di molti fatti cruenti. In una società iperedonistica in cui si sono allentati molti freni morali e in cui la violenza appare “gratuita” e tende a esplodere nelle forme più virulente e insensate, i richiami al perdono sono divenuti sempre più frequenti, scontati e rituali.

Di norma seguono macchinalmente lo stupore di fronte a azioni aberranti. Sintomo, - a dire di tanti - di imbarbarimento e di una crescente conflittualità sociale. Forse la frequenza di questi appelli (al perdono o al rifiuto di offrire un gesto simbolico di riconciliazione) cela la necessità di dare senso alla dis-umanità del male, suggella - come un corollario – una violazione, che ci interroga sulla possibilità di accoglierlo in mezzo a noi.

In altri termini, di includerlo, non nella sua essenza metafisica e valoriale, ma nel suo riprodursi quotidiano e tangibile, in noi e in chi ci è “prossimo”. Il male lo “proiettiamo” quasi sempre nell’altro: nemico, straniero, potenziale aggressore, spesso ritenuto colpevole di espropriarci di diritti e di beni che sentiamo esclusivamente nostri (casa, lavoro, territorio).


Il male lo esorcizziamo con reazioni di allontanamento, di paura, di odio, di indifferenza, di sfiducia, di esclusione, che ci rassicurano sul fatto di non esserne contagiati o infetti.. Contano poco i legami familiari, di parentela, di comune etnia, quando una frattura recide i rapporti di reciproco affidamento, nelle relazioni tra le persone.

La vita insieme esige l’esistenza di regole che ci possano rassicurare sulla costanza dei fenomeni e sulla relativa prevedibilità dei comportamenti degli attori sociali con cui interagiamo; si imposta sulla garanzia di codici condivisi che ci aiutino a orientarci in una realtà che altrimenti sarebbe percepita come imprevedibile e piena di rischi.

Ma il perdono può essere un gesto gratuito? Possiamo pensarlo come un gesto che simmetricamente si produce per saturare un vuoto o per ricucire uno strappo? E quale responsabilità implica offrire il perdono? E riceverlo?

Il perdono è considerato sinonimo di cancellazione dell’offesa. Se fosse necessario misconoscere la frattura, spesso non ricucibile, che ha strappato la trama delle esistenze , il perdono non renderebbe giustizia né all’autore del reato, né alla sua vittima.

Il primo non sarebbe responsabile per quello che commesso e la seconda non riceverebbe il riconoscimento delle conseguenze che la ferita le ha procurato. La nostra impalcatura giuridica assume la proporzionalità della pena (da commisurarsi alla gravità dell’offesa) come criterio del diritto di ottenere soddisfazione per un danno.

In questa logica distributiva, il perdono non è una categoria giuridica, ma un elemento altro, appartenente alla sfera morale, non, dunque, mezzo efficace di ricomposizione dei conflitti. Esso non offre ai due attori del dramma l’alea di incontrarsi. Il perdono è, invece, un atto di libertà. Come scrive Adolfo Ceretti, esso ha la sua scaturigine nel dispositivo del dono e nasce dalla coscienza di essere vulnerabili e esposti alla perdita di ciò che nella gratuità abbiamo dato. In una logica dello scambio, alternativa a quella utilitaristica e mercantile del mondo di oggi. Proprio l’esperienza vissuta della fallibilità permette di sporgersi verso l’altro e tessere rapporti interpersonali basati sulla fiducia e sulla possibilità di non riavere ciò che si è dato. Il dono (e il perdono) fa rifluire sentimenti bloccati nell’odio e nell’indifferenza è “una forma di scambio simbolico che apre al legame sociale” ( A. Ceretti,, 2013, p. 208). 


Proprio questo tema è sviluppato nelle sue molteplici declinazioni in: Il perdono responsabile, Edizione Ponte delle GrazieA partire dalla copertina fiammeggiante che offre al lettore la domanda: Si può educare al bene attraverso il male? E in calce l’asserzione perentoria: Il carcere non serve a nulla. Parole che pesano ancora di più se a scriverle è un magistrato che per anni ha somministrato condanne. L’autore è infatti Gherardo Colombo, pubblico ministero presso la Procura di Milano e giudice di Cassazione, implicato in inchieste celebri (Loggia P2, delitto Ambrosoli, Mani Pulite, i processi IMI-SIR, Lodo Mondadori etc.), uomo di punta, come è noto, della magistratura milanese. Forse la chiave del libro, o almeno una delle tante, è racchiusa però nelle parole della retrocopertina, in cui l’autore fa un auto da fé sull’uso della carcerazione come esclusivo strumento di esercizio della giustizia.

Attraverso un dialogo serrato con se stesso, il magistrato si interroga sugli effetti del carcere e sulla possibilità di percorrere altre vie per stipulare un patto di reciproca responsabilità tra la collettività e chi ha violato la legge. Prendendo le mosse dal concetto di giustizia - nella sua origine da una visione religiosa - collega il concetto di perdono, suo corollario, al peccato e alla violazione di un rapporto privato tra le persone. Ma il libro vuole suggerire un diverso profilo del perdono, non ristretto alle relazioni private, ma incentrato sulla dimensione pubblica. 

L’autore per approdare a questa diversa concezione del perdono,definisce il concetto di regola, come “l’indicazione della costanza di un fenomeno”, che solo per un fraintendimento è di solito identificata con la punizione. La pena è del tutto aleatoria rispetto alla regola. E’ questa circostanza, (e il fatto che il lemma dovere, nella nostra lingua, sia usato indifferentemente per significare l’effetto di un’imposizione o il bisogno di ottemperarvi, affinché una condizione preferibile si avveri), a rendere proponibile il perdono, come modo alternativo (e più efficace) di regolare i rapporti sociali. 

Segue una rassegna dei modi in cui l’uomo ha cercato di regolare tali rapporti. Dalla legge del taglione che portava - nelle società antiche - a limitare la vendetta entro l’ambito della restituzione simmetrica del torto subito (il famoso occhio per occhio), alla duplice visione della giustizia che è documentata nella Bibbia. 

Nei testi dell’Antico Testamento si ritrovano sia esempi di un Dio generoso che libera l’uomo senza contropartita, sia esempi di un Dio giusto e vendicatore che retribuisce il male con il male. 
L’uomo ha optato per la quest’ultima versione della Parola che reclama la punizione e non il ricongiungimento con chi ha sbagliato. La legge e la cultura si sono fatte, anche loro, interpreti di una visione retributiva della legge che prevede l’annullamento dell’autore del torto o la sua esclusione dalla società. 

Ma contro i giudici severi e irremovibili, nel tempo si sono levate varie voci a favore di una concezione clemente che non escluda il perdono dall’impianto giudiziario. 
Gherardo Colombo cita il caso di un gesuita, Eugen Wiesnet, particolarmente impegnato nell’assistenza ai giovani detenuti tossicodipendenti, che negli anni ’60 pubblicò: Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Il libro è dedicato a Hans K., un diciannovenne morto suicida. Ritornato dal carcere minorile dopo tre anni di detenzione, era stato respinto dal suo villaggio di origine in quanto “furfante” e “galeotto”.

L’ex magistrato sottolinea come il termine ebraico Tsedaqah con il quale si esprime la giustizia salvifica di Dio, sia stato distorto in justitia, con cui nella società occidentale si configura la costante e immutabile volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Ora, sostiene Colombo, non si mette in discussione il diritto della società a difendersi da ulteriori delitti, ma si tratta di includere il perdono come categoria giuridica, in sostituzione della semplice punizione del reato commesso. 
Nella seconda parte del libro, l’autore si sofferma a esaminare le ragioni dell’inutilità di una giustizia rivolta solo a reprimere e a punire. La prima è che essa non previene né tantomeno distoglie dal commettere un reato chi è spinto a farlo. L’efficacia intimidatrice della pena potrebbe valere se fosse esercitata a ogni trasgressione, cosa che è lontanissima dalla realtà. E poi chi ha l’esigenza urgente di soddisfare il proprio bisogno di droga o è indotto dalla fame o da una passione o, infine, subisce l’influsso di un ambiente criminale delinque senza tener conto della norma penale, anche se ha sperimentato la sofferenza della reclusione. 
Solo il perdono, rendendo reciprocamente responsabili, sia l’autore di un reato, sia chi ne è vittima e l’applicazione di sanzioni positive, restituendo la dignità a chi ha violato la legge, limita la probabilità di violarla ancora.
L’autore cita le parole di Carlo Maria Martini

andrebbe privilegiata l’applicazione di forme sanzionatorie diverse dal carcere che in molti casi potrebbero assumere un significato costruttivo, pur restando impegnative per chi a esse viene assoggettato

Il libro si conclude con l’appello all’esercizio di una giustizia riparativa che proponga nuove forme per regolare i rapporti umani. Come è espresso nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1999 con l’indicazione ai diversi attori sociali di partecipare attivamente alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato. O come prevede la Risoluzione dell’ONU del 2002.
Si tratta di principi ispiratori che non hanno trovato larga applicazione nel nostro codice penale, ad eccezione della nascita di alcuni uffici di mediazione che operano e che segnano una nuova, significativa, traiettoria, dando voce alla speranza di una società più giusta.

E’ possibile perdonare? Un viaggio tra Israele, Palestina e Sudafrica nel mistero della domanda di giustizia e del legame che separa e unisce vittima e colpevole. Un itinerario che segue la tortuosità, le luci e le ombre di un ardito, forse scandaloso, riconoscimento reciproco, con la guida della testarda integrità della sua protagonista. Qualche mese fa ho conosciuto Robi Damelin, una signora israeliana che è membro del Parent Circle, l'associazione israelo-palestinese il cui scopo è promuovere pace e tolleranza fra i due popoli e il cui motto è: It Won't stop until we talk.
Robi ha deciso di perdonare gli assassini di suo figlio. Nel suo percorso di riconciliazione è stata protagonista di un bellissimo film : "One day after peace". In questo film Robi Damelin cerca di trovare nelle storie del Sud Africa post apartheid, motivi di ispirazione per una pacifica convivenza tra Israeliani e Palestinesi.

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