lunedì 17 giugno 2013

Si può educare al bene attraverso il male?

Incontro del 3 giugno 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
In carcere si discute di perdono responsabile
Azalen Tomaselli con i detenuti.
Il cielo è sereno, l’aria ormai calda della primavera inoltrata. Azalen arriva con la chitarra e attende che l’aula si svuoti e i partecipanti si siedano a giro. Oggi l’ospite protagonista è un libro. Ma si procede come al solito. Zero insieme a un nuovo partecipante leggono il resoconto; poi è la volta di Iena che porta al gruppo le impressioni di Sonja Radaelli (vedi QUI) e di Antonella Cavallo (vedi QUI) sull’incontro svolto il 7 giugno. 

Oggi di scena è un piccolo volume: Il perdono responsabile, Edizione Ponte delle Grazie. La copertina fiammeggiante reca la domanda: Si può educare al bene attraverso il male? E in calce l’asserzione perentoria: Il carcere non serve a nulla. Parole che pesano, e che pesano di più se a scriverle è un magistrato che per anni ha somministrato condanne. L’autore è infatti Gherardo Colombo, pubblico ministero presso la Procura di Milano e giudice di Cassazione, implicato in inchieste celebri (Loggia P2, delitto Ambrosoli, Mani Pulite, i processi IMI-SIR, Lodo Mondadori etc.), uomo di punta, come è noto, della magistratura milanese. Forse la chiave del libro, o almeno una delle tante, è racchiusa nelle parole del retro della copertina, in cui l’autore fa un auto da fé sull’uso della carcerazione come esclusivo strumento di esercizio della giustizia.



Attraverso un dialogo serrato con se stesso e con la realtà, il magistrato si interroga sugli effetti del carcere e sulla possibilità di percorrere altre vie per stipulare un patto di reciproca responsabilità tra la collettività e coloro che sono incappati nelle maglie della legge. Azalen inizia con il dire che il concetto di giustizia parte da una visione religiosa, come il concetto di perdono, suo corollario, collegato al peccato e alla violazione di un rapporto privato tra le persone. Ma il libro vuole occuparsi di un altro profilo del perdono, che scavalchi le relazioni private e riguardi la sua dimensione pubblica. 

Si parte dal concetto di regole e alcuni partecipanti, sollecitati, propongono la loro definizione: qualcosa cui attenersi per il bene comune, qualcosa cui è obbligo sottoporsi. Qualcuno si astiene dall’esporre la propria opinione. La regola è l’indicazione della costanza di un fenomeno, spiega Azalen citando l’autore, e solo per un fraintendimento è di solito scambiata con la punizione. La pena è del tutto aleatoria rispetto alla regola. E’ questa circostanza, e il fatto che il dovere nella nostra lingua sia usato indifferentemente per significare l’effetto di un’imposizione o la necessità o il bisogno perché una condizione preferibile si avveri, a rendere proponibile il perdono, come modo alternativo (e più efficace) di regolare i rapporti sociali. 

 Preso l’avvio, il discorso si sviluppa attraverso vari filoni. Dalla legge del taglione che portava - nelle società antiche - a limitare la vendetta entro l’ambito della restituzione simmetrica del torto subito (il famoso occhio per occhio), alla diversa visione della giustizia che ha la sua origine nella Bibbia e considera da una parte la liberazione dell’uomo senza contropartita e dall’altra la retribuzione proporzionata del male con il male. L’uomo ha optato per la versione della parola di Dio che reclama la punizione e non il ricongiungimento con chi ha sbagliato. La legge e la cultura si sono fatte interpreti di una visione retributiva della legge che prevede l’annullamento dell’autore del torto o la sua esclusione dalla società. Ma contro i giudici severi e irremovibili, nel tempo si sono levate varie voci a favore di una concezione clemente che non escluda il perdono. Tra le tante, quella di un gesuita, Eugen Wiesnet, particolarmente impegnato nell’assistenza ai giovani detenuti tossicodipendenti, che negli anni ’60 pubblicò: Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Il libro è dedicato a Hans K., un diciannovenne morto suicida. Ritornato dal carcere minorile dopo tre anni di detenzione, era stato respinto dal suo villaggio di origine in quanto “furfante” e “galeotto”. 

Gherardo Colombo sottolinea come il termine ebraico Tsedaqah con il quale si esprime la giustizia salvifica di Dio, sia stato distorto in justitia, con cui nella società occidentale si configura la costante e immutabile volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Ora, sostiene Colombo, non si mette in discussione il diritto della società a difendersi da ulteriori delitti, ma si tratta di includere il perdono come categoria giuridica, in sostituzione della semplice punizione del reato commesso. 

Nella seconda parte del libro, il magistrato passa a esaminare le ragioni dell’inutilità di una giustizia rivolta solo a reprimere e a punire. La prima è che essa non previene né tantomeno distoglie dal commettere un reato chi è spinto a farlo. L’efficacia intimidatrice della pena potrebbe valere se fosse esercitata a ogni trasgressione, cosa che è lontanissima dalla realtà. E poi chi ha l’esigenza impellente di soddisfare il proprio bisogno di droga o è indotto dalla fame o subisce l’influsso di un ambiente criminale che mette a repentaglio la propria incolumità, delinque a prescindere da qualsiasi norma penale, anche se ha sperimentato la sofferenza della reclusione. 

Solo il perdono, rendendo reciprocamente responsabili, sia l’autore di un reato sia chi ne è vittima e il ricorso a sanzioni positive, può restituire dignità a chi ha violato la legge, riducendo la reiterazione del reato. 

L’autore cita le parole di Carlo Maria Martini
andrebbe privilegiata l’applicazione di forme sanzionatorie diverse dal carcere che in molti casi potrebbero assumere un significato costruttivo, pur restando impegnative per chi a esse viene assoggettato
Il libro si conclude con l’appello all’esercizio di una giustizia riparativa che proponga nuove forme per regolare i rapporti sociali. Come è espresso nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1999 con l’indicazione ai diversi attori sociali di partecipare attivamente alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato. O come prevede la Risoluzione dell’ONU del 2002Si tratta di principi ispiratori che non hanno trovato applicazione nel nostro codice penale, tranne alcuni casi sporadici (esistono in Italia pochi uffici di mediazione penale), ma che segnano una nuova, significativa, traiettoria. 

Al termine dell’incontro a cui i partecipanti hanno contribuito con i loro stimoli e con il racconto di esperienze personali, sono le note di Animabella a concludere la discussione, insieme ai saluti e all’impegno di ritrovarsi il prossimo lunedì.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia  

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