sabato 8 giugno 2013

David Garland e la pena di morte

David Garland parla della pena di morte in America
di Azalen Tomaselli

Giuditta e Oloferne (ispirato a Beatrice Cenci) - Caravaggio (1599)


David Garland presenta il suo ultimo lavoro: La pena di morte in America: un’anomalia nell’era dell’abolizionismo. Il Saggiatore 2013

I paesi mantenitori della pena di morte sono 43, di essi 36 sono paesi dittatoriali e solo 7 fanno parte delle democrazie liberali.

Nell’auditorium Guido Martinotti dell’Università Bicocca, gremito di studenti, studiosi, docenti e operatori del sociale, David Garland tiene la sua lectio magistralis sulla pena di morte. Disegna alcune traiettorie politiche e culturali che fanno dell’America uno dei sette paesi al mondo, mantenitori di questa anomalia, cita dati oggettivi sull’incidenza dell’istituto: numero di condanne emesse, tasso di esecuzioni, tasso di revisioni delle sentenze, totale dei paesi USA, in cui la sanzione letale è applicata. Il timbro di voce è fermo, l’argomentare rigoroso, senza passione, senza incrinature. Scandaglia un’anomalia, procedendo per paragoni, disegnando il contesto e i nessi tra sistema penale e società, seguendo il tragitto dell’istituto della pena capitale e indicando la sua scaturigine nel linciaggio degli afroamericani da parte degli schiavisti del Sud. Dichiara il suo obiettivo: omettere di occuparsi della questione morale, della scelta di campo “pro” o “contro”, di rispolverare le trite argomentazioni di abolizionisti e non, per affrontare la questione da semplice “analista”.


Ma il suo fuoco è soprattutto rivolto alla disanima delle pratiche attraverso le quali un’autorità punisce con la sanzione letale un imputato dichiarato colpevole. Man mano che procede nella sua esposizione si comprende come il mantenimento della pena capitale dipenda da una complessa costellazioni di fattori riconducibili alla dialettica tra società e giustizia penale. L’America è un paese in cui la volontà dei cittadini è in grado di limitare fortemente il ruolo delle istituzioni. Le ideologie liberali che considerano il diritto alla difesa non delegabile (si pensi all’uso diffuso delle armi) e le passioni giustizialiste della gente comune sono spesso intercettate dai politici locali e usate per ottenere voti. Lo studioso fornisce dati statistici riguardanti le poche condanne capitali effettivamente comminate (quasi sintomo di una cattiva coscienza). Su 14.000 omicidi si emettono circa 70, 80 condanne, di cui solo 40 si convertono in esecuzioni della pena. Numeri che danno la dimensione “ridotta” del fenomeno, ma significativi per dimostrare quanto esso rimanga radicato in ampie fasce della opinione pubblica statunitense. Lo stesso modo con cui la condanna è eseguita (l’iniezione letale) paragonabile alla morte assistita, mette in luce il carattere algido e impersonale che le si vuole imprimere. Viene posta fine alla vita senza dolore, senza dare enfasi o risonanza all’evento - morte, si privatizza la pena eguagliandola a qualsiasi altro atto giudiziario formale. Se ne riduce la valenza di evento traumatico, per dare rilievo alla autorità statale e al suo potere di vita e di morte su chi viola la legge.

Poi l’antropologo si concentra sulle radici storiche dell’istituto della pena di morte, risalendo alla pratica del linciaggio, con il quale all’indomani dell’abolizione della schiavitù, tra il XIX e il XX secolo, negli stati del Sud si eliminavano i negri, con il tacito appoggio delle autorità locali. Come sottolinea nell’introduzione Adolfo Ceretti: tra il 1882 e il 1840 negli stati schiavisti sono stati registrati circa 4000 linciaggi, enfatizzati dalla stampa locale come veri e propri eventi pubblici. Una giustizia fai da te, che si verificava pubblicamente con l’esposizione dei cadaveri e doveva servire da monito per i trasgressori della legge. Essa costituiva in una società dove il sistema di controllo dei neri era diventato fragile e instabile un rituale retributivo atto a sedare le paure e a prevenire una possibile alleanza degli schiavi liberati con la parte più povera della popolazione bianca. Oggi l’esecuzione capitale segue una logica opposta, “una simmetria negativa”, rileva Garland, perché non è auto perpetrata dalla folla inferocita, ma esercitata da funzionari di stato dopo nove gradi di appello, in modo sterile e razionale. Rimane però la connotazione razzista per cui la condanna a morte si abbatte più facilmente se la vittima è un bianco rispettabile e l’autore del reato è un afroamericano. La domanda ineludibile tuttavia rimane. Perché la pena di morte?

Essa, ci dice lo studioso, non è un retaggio del passato, ma uno strumento che assolve a specifiche esigenze e funzioni nella attuale società tardo moderna. Costituisce una nuova tipologia di eventi che trovano proprio nella pena capitale la propria risoluzione, come l’aumento di false accuse contro i neri, l’inflizione di sanzioni senza garanzie, il populismo dei governatori locali, la sua distribuzione con un’alta concentrazione nel Sud di stati favorevoli alla pena capitale, la mobilitazione politica imperniata sulla richiesta di sovranità locale. Questi sono alcuni dei fenomeni che più si intonano alla sopravvivenza di questa anomalia. L’intero arco delle contrapposte visioni però è scandagliato dallo studioso con l’intento di sospendere ogni critica e analizzare il fenomeno in modo neutro, razionale, anatomico. Dal tentativo di decifrare la continuità tra le violenze collettive dei linciaggi e le pressioni per il mantenimento della pena di morte nei paesi più conservatori del Sud. 

Garland ricorda le funzioni della pena: deterrenza, soddisfazione della vittima e retribuzione e individua le componenti sociali e politiche che ne sostengono il ruolo discriminante per garantire la sicurezza e l’armonia tra le componenti sane della società. Tra gli ostacoli all’abolizione di questa anomalia segnala la diversa organizzazione statuale degli Usa, contraddistinta da poteri locali forti e da uno Stato federale “debole”, una diversa concezione di giustizia penale che prevede l’elezione democratica del procuratore distrettuale e del giudice. La pronuncia della sentenza da parte di una giuria popolare composta da dodici membri. Proprio l’istituto della schiavitù avrebbe concorso, nella sua analisi, a limitare i due poteri governativi centrali: l’uso legittimo della forza e l’imposizione delle tasse. Garland ricorda lo slancio riformatore degli anni ’70 in favore dei fondamentali diritti civili e il riflusso razzista in una società che si apprestava a declinare il problema della sicurezza in termini di incapacitazione degli individui potenzialmente pericolosi. 

Valgono per tutti alcuni fatti. La Corte Suprema, chiamata a esprimersi nel 1972 sulla legittimità costituzionale della pena di morte, anziché abolirla su tutto il territorio si indirizzò a riformare la giurisprudenza della pena capitale, stabilendo il divieto di sanzioni crudeli e inusuali e il diritto a un giusto processo, mettendo a punto un regime di tutele e di garanzie processuali assai ampio. La battaglia si spostò dal terreno morale a quello politico e la pena di morte è diventato il simbolo dei diritti degli stati di scegliere una propria politica di controllo del crimine senza indebite usurpazioni da parte degli organismi federali. Dopo la chiusura dei bracci della morte e altre conquiste civili si è registrato un arretramento su tutto il fronte dei diritti civili di cui la pena letale rappresenta un baluardo simbolico pro e contro. Lo studioso mostra come le esigenze storicamente assegnate alla pena capitale non siano soddisfatte dalle attuali pratiche. Infatti, la sua esecuzione privata e indolore non soddisfa le vittime e il lungo periodo che intercorre tra la commissione del crimine e l’intervento sanzionatorio, la priva del nesso tra reato e inflizione della pena. Il condannato mandato a morte non è più l’uomo che ha violato la legge e procurato un’onta grave all’intera società. Essa si rivela inutile. 

Avventurandosi su un terreno diverso dalle premesse dei dati numerici e delle ricostruzioni storiche, il criminologo coglie lo slittamento della pena letale da strumento per punire un autore del crimine “a istituto peculiare che immette la morte nel discorso a fini politici e culturali”. Nella generale rimozione che investe il discorso sulla morte egli sostiene che la possibilità di mettere a discorso la morte controllata, autorizzata da una condanna e relativa a un altro demonizzato, permette di violare un tabù. Inoltre, i discorsi e le opinioni che si scambiano su delitti efferati svolgono il compito di liberare pulsioni represse e difficili da tenere a freno. Ma il discorso sulla morte oltre a esprimere ciò che è indicibile serve anche a perseguire obiettivi professionali e a esercitare una pressione sugli imputati per estorcere confessioni. Alla luce di queste ultime considerazioni, l’inamovibilità della pena di morte dalla società americana lungi dal collegarsi alla sua tradizione violenta e a una ben orchestrata strategia della paura getta luce su nuove forme di razionalità intrinseca della sanzione e sull’immissione della morte nei discorsi pubblici. Lo studioso registra il mutare della sensibilità e del costume collegandolo all’intreccio di penalità e comportamenti sociali e al modo in cui si generano nuove forme di relazione all’altro e nuovi modi di escluderlo dal proprio orizzonte. Cita tra i mutamenti: la medicalizzazione e la privatizzazione della pena che avrebbe il duplice obiettivo di nasconderla e di sottrarla alla riflessione della comunità civile. E, non ultimo l’indubbio legame tra società e giudizio sulla colpa, evidenziato dal ruolo rivestito dalle vittime nella fase di pronuncia della sentenza con l’ammissione dei Victim Impact Statements.

Per noi Europei la pena capitale è un problema ormai superato da tempo. Perché parlarne? Per due ragioni: per continuare a condannarla e a usare tutti gli strumenti di cui disponiamo per farla abolire. E perché essa offre un paradigma per il nostro sistema penale e porta a riflettere sulla pena e sul diritto che ha l’uomo di infliggere la sofferenza a un altro uomo. In una società civile,la terzietà dello stato deve coniugarsi con la clemenza e il rispetto del reo. Valga come esempio per tutti l’istituto del fine pena mai, inconciliabile con una funzione riparativa della giustizia che riconosca come bene incedibile la dignità. Una pena inutile e contraria a ogni forma di riconoscimento della possibilità di redimersi e di mostrare un volto veramente umano a chi, per varie ragioni, ha sbagliato.

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