sabato 5 novembre 2011

Vita da "secondini"

Vita da "secondini"
Come vivono gli agenti della polizia penitenziaria?

Liberante è un blog che vuole dare voce ai detenuti, ma che ha l'intento di fare conoscere ai suoi lettori una realtà più ampia del complesso e sfaccettato sistema che è il carcere.
Il presente articolo intendo dedicarlo agli appartenenti al corpo della polizia penitenziaria.
Vengono impropriamente chiamati agenti di custodia o AC (acronimo usato in particolare dai detenuti), a volte chiamati persino secondini, termine denigratorio e fortunatamente in disuso.

Qui in Lombardia ho incontrato personale gentile e preparato, così come agenti arroganti e maleducati, che si sentono in diritto di trattare con gratuita rudezza detenuti e volontari, in primo luogo per imporre la propria autorità! Fortunatamente a prevalere sono i primi, e a parziale scusante dei secondi c'è da dire che spesso sono tra i più giovani e ancora non hanno appreso l'umanità e la sensibilità, che un lavoro importante e delicato come il loro richiede.



I detenuti stessi esprimono gratitudine verso quegli ispettori che hanno a cuore la loro dignità, verso quegli agenti che si rivolgono loro con rispetto e comprensione. Sono uomini e donne che hanno sbagliato e che giustamente stanno scontando la loro pena, ma che non meritano di soffrire niente di più. Non è già abbastanza terribile essere privati della propria libertà?
Alcuni di essi mi raccontano di agenti che li trattano con indelicatezza e astiosità ma mi raccontano anche di agenti che nei momenti più difficili hanno saputo aiutarli, confortandoli, dissuadendoli dal “fare sciocchezze”. In Italia il carcere ha una funzione rieducativa e riabilitativa, e sono certo che la maggior parte degli appartenenti al corpo della polizia penitenziaria sia consapevole di questa valenza etica e che si impegni a dare il suo contributo in tal senso. Come sottolineato, è un lavoro che richiede grande umanità, ma anche equilibrio e stabilità psichica. In istituti di pena difficili, come quello di San Vittore, un numero esiguo di agenti è incaricato di gestire un numero esponenzialmente enorme di detenuti che ha i più svariati problemi. Deve saper sedare liti in condizioni di convivenza difficilissima, deve saper interloquire con detenuti che hanno o contraggono patologie psichiatriche, deve far rispettare le regole ma deve anche saper comprendere persone che hanno perso tutto e che hanno l'incarico di controllare con turni di lavoro faticosi.
Anche emotivamente è un lavoro usurante, che alla lunga può compromettere la salute, col suo continuo logorio psicologico, con lo stress di dover gestire dinamiche complesse. Il carcere è un luogo di dolore, e anche se questo dolore è patito da altri nessuno vi è impermeabile. Il carcere segna, e non serve essere individui dotati di straordinario senso della pietas o di grande sensibilità e empatia, basta avere umanità per essere contagiati da questa profonda tristezza. Gli agenti per sopportare questa atmosfera opprimente non hanno bisogno di diventare cinici, devono essere forti. Questo è un lavoro difficile. Davvero molto difficile.
Notizia di pochi giorni fa è che l'assistente capo della polizia penitenziaria in servizio a Avellino si è tolta la vita. In Italia dal 2000 a oggi si sono tolti la vita 100 poliziotti penitenziari. Certamente molti di loro avranno avuto anche problemi di natura personale, ma davvero la logorante esperienza del carcere non ha nessun collegamento con questi tragici esiti?

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