mercoledì 5 dicembre 2012

Mediazione: Lo Zen il tiro con l'arco

Lo Zen e il tiro con l'arco - L'arte del silenzio nel processo di Mediazione.
di Azalen Tomaselli 

L’arte del mediatore è analogica, sta in relazione con il tiro con l’arco, una pratica Zen che porta l’allievo al pieno dominio di sé. E’ attraverso questa disciplina interiore che il mediatore apprende a liberarsi da quelle visioni pre-formate, da quei pre-giudizi che, se mal orientati, precludono una reale adesione alle cose.

Ma è il silenzio il reale canale per fare fluire emozioni e per permettere ai vissuti di affiorare. Il mediatore deve sapere orchestrare e trovare la parola geometrica, la parola essenziale, umilmente distillata dall’ingorgo emotivo e in contatto profondo con la propria e altrui interiorità, una parola che si accorda con il silenzio e “lo ascolta”.



Eugen Herrigel, un professore di filosofia, durante un suo soggiorno in Giappone, decide di prendere lezioni di tiro con l’arco, un’arte coltivata dallo Zen insieme al tiro con la spada, l’arte di disporre fiori, la danza, i disegni con l’inchiostro di china. La descrizione del suo discepolato lungo e laborioso, diventa nelle pagine di questo saggio, paradigma della conquista della vera saggezza. L’autore sceglie questa via per avvicinare il lettore a una dottrina che può risultare incomprensibile. Nel seguire questo processo di apprendimento, segnato da fasi di arresto, da vari e vani tentativi per aggirare gli ostacoli, sbagli ripetuti, fino alla graduale comprensione e conquista di un’armonia tra interno e esterno, si profila l’intuizione di una esperienza intraducibile che conduce alla piena autonomia. L’apprendistato corre sul filo del paradosso dove i tradizionali rapporti sono rovesciati: da una parte c’è un maestro che dissuade l’allievo dalla preoccupazione di “centrare il bersaglio” e lo invita ripetutamente a allentare la tensione emotiva e a disinteressarsi degli sbagli che continuamente fa, dall’altra c’è un allievo che vuole raggiungere lo scopo e vorrebbe svelato il segreto dell’arte . Ma al di là della dialettica maestro allievo si configura una posta in gioco ben più importante costituita dal raggiungimento di quel grado di inconsapevolezza che va molto oltre l’abilità tecnica e che costituisce il vero punto di arrivo.

Questo, in sintesi, il contenuto del saggio che propone al lettore un illuminato ragguaglio della Grande Dottrina.


Qualche riflessione...

Non saprei riassumere i passaggi di questo apprendistato e credo che il senso di questo saggio non sia afferrabile o traducibile in parole, ma tocchi l’esperienza più intima, e conduca a riflettere sul rapporto tra noi e la realtà e sul modo in cui ciascuno si dispone a vincere il negativo e a raggiungere una meta superiore alle sue forze. Il segreto è percepire l’altro non come estraneo nella sua opacità, ma come polarità dell’essere collegato a noi da una comune appartenenza. Cogliere questa profonda unità di là dalle differenze con l’universo di cui siamo parte, intuire l’identità dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, credo significhi potere arginare l’angoscia di morte. Quando la freccia colpisce il bersaglio, per vie misteriose, l’arciere l’arco il bersaglio diventano tutt’uno. Colpire il bersaglio non è la meta ma è il mezzo che ci permette di afferrare una verità inaccessibile con il ragionamento logico. Kundera intitolava un suo fortunato romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la leggerezza è infatti insostenibile perché ci impone di spogliarci di quegli orpelli, di quei pregiudizi, di quei radicati convincimenti, di quella visione che ci mette al riparo dal rischio di affrontare il non conosciuto e l’imprevedibile e di trovare modi di agire che non abbiamo ereditato e assimilato (anche inconsapevolmente). Il maestro danza e colpisce infallibilmente l’obiettivo, perché ha annientato ogni differenza tra interno e esterno , ha creato una perfetta continuità tra la tensione del braccio, l’arco che scocca la freccia e il bersaglio che la riceve. Nella visione occidentale dualistica, il mondo esterno è duro, incontrollabile e difficile da penetrare, la realtà si oppone ai nostri desideri, ai nostri impulsi più profondi, affrontarla significa moltiplicare gli sforzi per piegarla ai nostri bisogni e alle nostre aspettative. La cultura con i suoi divieti ha ulteriormente esacerbato questa lotta. Tutta la psicoanalisi parte dal presupposto di colmare il dualismo tra la nostra parte istintuale e la civiltà che regola e sbarra la porta agli impulsi primari per incanalarli e relegarli alla sfera intima o, quando sono inaccettabili, per reprimerli.

Il Tradimento del pensiero

Nello Zen il pensiero è considerato un tradimento di quella profonda unità che unisce l’uomo alla natura, per avvertire l’armonia del tutto che elide i contrasti occorre sgombrare la mente e fare il vuoto. Restare nello stato di massima tensione senza intenzione in un cammino che non è misurabile perché coincide con l’estensione dell’intera esistenza. Distaccarsi dall’Io e dalle intenzioni e dai propositi di cui si riveste per riconoscersi significa diventare una fibra dell’universo e lasciarsi attraversare dallo spirito che è il motore di tutte le cose. Nel processo dell’allievo Herrigel possiamo riconoscere la difficoltà a fare a meno delle cose su cui facciamo affidamento e che si rivelano i più grandi ostacoli al nostro agire. La volontà intesa come una supremazia dell’Io, il desiderio di riuscire e la distinzione tra mezzo e fine sono agli antipodi di quell’oblio di sé che permette alle cose di accadere come devono accadere senza che nessuna forza si frapponga: il bersaglio e l’arciere sono la medesima cosa e la freccia scocca come un frutto maturo. Il tema della concentrazione dello spirito in quel preciso atto, della totale presenza a se stessi come esito del totale rilassamento e abbandono di ciò che ci riempie, è un altro dei preziosi insegnamenti dello Zen. Così come l’invito all’imperturbabilità per non cadere in balia di facili entusiasmi. E’la calma fiducia la condizione che permette al tiro giusto di ripresentarsi. Solo attraverso l’esercizio infaticabile si raggiunge quel grado di naturalezza che è proprio dei principianti, ma con la tranquillità di chi ne ha fatto una più complessa esperienza. Attendere il compimento dell’atto è molto difficile perché quasi sempre si è in attesa del fallimento, mentre nella dottrina Zen l’uomo deve imparare la giusta attesa. L’individuazione del momento in cui la freccia scoccherà per raggiungere il bersaglio non può dipendere dalla volontà ma dalla concentrazione che porta a essere dentro le cose nel momento in cui accadono. Tutto questo può avvenire con il re immergersi nella origine, nello sciogliere tutti i legami, nel conquistare, infine, quella libertà che esula da ogni forma di tensione verso lo scopo.

Il tiro con l'arco nell'esperienza di formazione alla Mediazione

Nella mediazione l’esperienza del mediatore ha molte analogie con la prova del tiro dell’arco. Ne vorrei indicare solo alcune specificando che questa arte, secondo me, può essere presa come modello per qualsiasi interazione con il mondo. 

La prima considerazione riguarda il vuoto, cioè quello stato di concentrazione che scaturisce dall’avere sgombrato la mente da tutte le preoccupazioni, dalle ansie di prestazione, dalle paure, ma anche dalle convinzioni, da tutto ciò che riempiendoci non fa entrare nulla. Siamo vasi ripieni di un sapere non nostro (faceva dire Pier Paolo Pasolini alla sua Medea) e non possiamo ricevere niente se non puliamo “lo specchio”. 

Il secondo aspetto è il tempo. L’allievo si preoccupa di individuare il momento in cui fare scoccare la freccia, tutta la sua tensione è assorbita da questo scopo, allo stesso modo nella esperienza di formazione, l’esigenza di intervenire con un “io sento” o con una sintesi sui fatti esposti dai medianti può distogliere da un vero ascolto e orientare l’attenzione verso di sé. Il terzo aspetto è la paura di fallire che non mette in condizione di ascoltare la propria interiorità e di metterla in sintonia con quella dell’Altro, accettando umilmente che le parole dette non siano recepite o siano respinte come fuorvianti. 

Mi piacerebbe concludere queste mie riflessioni su un libro così bello e essenziale con un ultimo insegnamento, forse il principale, che esso, tra gli altri, propone. L’insegnamento della giusta attesa che vorrei mettere in relazione con la giusta distanza, quell’attitudine a cogliere le cose nel loro accadere e a inserirsi in questo processo senza forzarlo, per liberare la propria esistenza da tanto rumore e incominciare a imparare l’arte del silenzio, ossia l’arte del tiro dell’arco.

Bibliografia

Eugen Herrigel Lo Zen e il tiro con l'arco Milano, Adelphi, 1975, 2009 

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