sabato 7 gennaio 2012

Arthur Kleinman parla della sofferenza negli spazi urbani

La crisi economica comporta un aumento della conflittualità nel tessuto sociale. Assistiamo a un progressivo degrado urbano, responsabile di sofferenza sempre più diffusa che spesso trova sfogo in atti criminali. Le misure cautelative del carcere, in questo contesto, sono inefficaci nel contenere la portata del fenomeno. E' necessario trovare nuove forme di aiuto sociale a difesa dei più deboli per prevenire la violenza. Il sistema penitenziario, supportato dalla ricerca di coesione sociale, può certamente garantire una maggiore sicurezza nelle nostre città.

Riassunto della conferenza tenuta dal professor Arthur Kleinman all'Università Statale di Milano il 13 dicembre 2011.

di Azalen Tomaselli e Simon Pietro De Domenico

« Posso solo suggerire che chi vuole combattere la falsa coscienza e destare la gente ai suoi veri interessi ha molto da fare, perché il sonno è profondo. Ed io non intendo fornire una ninna-nanna, ma semplicemente entrare furtivamente e osservare il modo in cui la gente russa. » 

Forse non basta limitarsi a osservare il modo in cui la gente russa e l'indifferenza che tocca un’ampia fetta della società. Mi riferisco agli emarginati, agli  esclusi (senza tetto, senza lavoro, rom, extracomunitari, carcerati, tossicodipendenti, anziani, malati psichici, malati terminali) e a tutte le persone la cui identità è negata. Infatti, interessarsi della sofferenza negli spazi urbani non è solo un compito morale, ma è un compito necessario in una situazione di crisi. Il fenomeno sta negli ultimi decenni  varcando tutti i confini e si sta estendendo a fasce sempre più estese della popolazione globale.


Proprio il disagio urbano è il tema della lectio magistralis di Arthur Kleinman, psichiatra e antropologo americano. L'evento è stato organizzato dal Souq (centro studi sofferenza urbana) e dalle università Statale di Milano e Bicocca il 13 dicembre 2011. Il tema della "social suffering in urban spaces" (la sofferenza urbana) è specifico della antropologia medica, una disciplina  che studia il necessario rapporto tra infermità e disagio sociale. E’ difficile richiamare tutti gli spunti esposti dal relatore che ha spaziato dalle teorie di Weber a quelle di Goffman e di  Merton e ha  costellato un quadro concettuale complesso e articolato.
Mi limiterò a riflettere su alcuni passaggi della sua conferenza. Partirò da una domanda. In un mondo attraversato da una crisi che scuote dalle fondamenta vecchie dottrine, assetti socio-economici, organizzazione di stati, erodendo il patto sociale, minando ogni senso di appartenenza, sovvertendo vecchi equilibri, qual è il compito dell'antropologia? La scienza non si può limitare a proporre  teorie, principi astratti - risponde Kleinman - ma deve impegnarsi a indicare pratiche sociali e etiche. Occorre un coinvolgimento dell’antropologo per comprendere la realtà, per intervenire sul campo e per produrre cambiamenti concreti nella cultura.

Umanizzare la società e la cultura significa - per lo studioso - assumersi il fardello della responsabilità  e sollecitare la riflessione sulle esperienze morali. Le parole chiave sono “presenza” e “assistenza”, quindi l’obiettivo è promuovere un approccio antropologico per sostenere le riforme dell’assistenza. L’assistenza  (caregiving)  può essere realizzata per esempio nella famiglia e consiste nel sostegno psicologico, morale, emotivo, economico prestato a chi ci è vicino e può essere realizzata nella società attraverso l’assistenza agli individui più deboli. La nostra vita morale è soggettiva e sociale allo stesso tempo. Ogni esistenza si ispira a valori e costringe l’uomo a "compromettersi" con le questioni importanti. L’antropologo sostiene che non possiamo essere tutti degli eroi (quindi, capaci di cambiare  il mondo) ma potremo essere degli antieroi, nell’accezione di Dostoevskij, cioè uomini capaci di resistere alla cultura della collusione, che reagiscono alla passività e alla rassegnazione. Insomma l’antieroe è colui che conduce una vita adeguata, è colui che dà assistenza a chi ne ha bisogno. Kleinman traccia una mappa della sofferenza urbana prodotta dal neoliberismo le cui conseguenze sono una riduzione della classe media, una pressione sulla classe operaia, una concentrazione della ricchezza, una erosione del contratto sociale tra ricchi e poveri. Alienazione, marginalità, disoccupazione, criminalità, aumento crescente di senza tetto, infermità mentale, dipendenze, HIV, sono alcuni dei segni di una crisi urbana ormai dilagante e che non risparmia i paesi ricchi. Kleinman delinea gli snodi principali di questo progressivo degrado, dalle trasformazioni impresse dalla prima guerra mondiale alla fine degli imperi centrali, dalla depressione degli anni ’30 al nazifascismo sfociato nella seconda guerra mondiale, alla decolonizzazione fino alla crisi del capitalismo finanziario dei giorni nostri che, accrescendo la vulnerabilità delle persone, le rende incapaci di lottare contro la discriminazione, l’intolleranza religiosa, gli abusi della classe politica, l’indifferenza e il relativismo.

Insomma il progresso ha chiuso l’uomo moderno in una gabbia d’acciaio (Weber) privandolo dei sentimenti, della spontaneità e soprattutto della capacità di trovare nuove soluzioni. La razionalizzazione assunta dalle istituzioni per governare ha procurato una perdita delle tradizioni, del buon senso, di un modo pratico e creativo di agire e di aiutare le persone.
L'imprevedibilità delle conseguenze delle azioni umane trae origine, sostiene Kleinman, dal carattere limitato delle nostre conoscenze. La metà delle conoscenze acquisite sono sbagliate; la sistematizzazione e la consuetudine nell’operare fossilizza il sistema portandolo a pratiche inutili, quando non dannose. L’antropologo mette in guardia contro il carattere asettico e impersonale della burocrazia e contro l’indifferenza (a volte cinica) con cui sono gestiti i rapporti tra l’individuo e il sistema. La stessa razionalità statuale porta a diventare “rigidi” e a imporre dall’alto e in modo unilaterale interessi e valori che disattendono le aspettative.
Spesso la salute fisica di chi ha un’identità negata, delle cosiddette “non persone”, di cui la società si disinteressa, è compromessa. Pertanto guarire il corpo non è sufficiente se non si medica l’anima: gli interventi sanitari e sociali devono essere congiunti e interattivi. 

Da qui il richiamo a una scienza che si metta al servizio dell’uomo per indicare le pratiche sociali eque e trovare soluzioni adeguate ai gravi problemi posti dalla povertà, dalle guerre, dalle divisioni interne, dalla negazione dei diritti e della dignità. La sofferenza e il dolore hanno radici sociali e spesso le azioni intraprese per debellarli li  esacerbano. Assistiamo a volte al paradosso che il rimedio è peggiore del male. il dolore - nota Kleinman - non è mai individuale, ma interpersonale. La malattia è figlia della sofferenza urbana, non serve curare il corpo e ignorare le sue componenti psichiche, emotive, sociali, economiche, frutto di gravi squilibri, di una violenza strutturale che produce malessere e infelicità.
Lungi dall’essere un Moloch crudele e sanguinario, la burocrazia deve darsi un volto umano. L’ombra di chi cade accanto a me mi colpisce come un monito a capire che anch’io divento “altro” da me e da ogni forma di umanità, nel momento in cui non lo soccorro e non gli tendo una mano.

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