martedì 17 febbraio 2015

Ho ucciso un principio di Paolo Pasi

Incontro del 29 gennaio 2015 Milano Casa circondariale San Vittore. 

La storia di Gaetano Bresci, per riflettere sulla libertà e sul tempo.
Paolo Pasi, Azalen TomaselliLeandro Gennari, Iginia Busisi Simon Pietro De Domenico con le persone detenute.

Gaetano Bresci - Flavio Costantini
L’aria e il nevischio stringono in una morsa la città, sono i giorni della merla in cui un freddo pungente ricorda che siamo nel cuore della fredda stagione. 

Paolo Pasi (già venuto a un precedente incontro del Libroforum) arriva in ritardo, trattenuto per lavoro, e Azalen sale al sesto per raccogliere i partecipanti. Si chiacchiera in attesa dell’ospite, mentre la chitarra posata su un tavolino centrale è il convitato di pietra, perché è stato raccomandato vivamente dal suo proprietario di non darla a strimpellatori dilettanti e improvvisati. 

Superati i controlli, il gruppo costituito dalla poetessa Iginia, da Simone e da Paolo prende posto in cerchio. Paolo racconta di essere venuto a San Vittore già nel ’92 da giovane cronista, ai tempi di Tangentopoli, in una situazione non facile, dove con una capienza di 700 persone il carcere ne ospitava circa 1500. 

Il primo impatto è stato molto duro” commenta rivelando il bisogno di tornare di tanto in tanto, per capire come evolve il sistema carcerario nella realtà milanese. Si presenta dichiarando le sue passioni: la chitarra e la scrittura, sin dalla prima adolescenza fino ad oggi. 

Porta l’ultimo libro, Ho ucciso un principio, Edizioni Eleuthera (Guarda il Booktrailer QUI) una biografia accuratamente documentata sull’uomo che ha cambiato il corso della storia nell’Italia del primo Novecento: Gaetano Bresci. Protagonista di un gesto clamoroso, l’uccisione del re Umberto I. Bresci fu rinchiuso per nove mesi in una cella di isolamento e fu trovato impiccato, in circostanze misteriose. 

L’Italia era allora un paese poverissimo, racconta Paolo, e la repressione delle rivolte popolari era feroce; a Milano vi erano state tre giornate di protesta nel corso delle quali il re aveva ordinato al generale Bava Beccaris di sparare sulla folla inerme. Ne derivò una strage, perché rimasero a terra 100 uomini, finiti dai cannoni. Il generale venne insignito di una medaglia per il servizio reso alla Corona. 

Gaetano Bresci, che era un operaio tessile, emigrato in America per cercare fortuna, avuta notizia dell’accaduto, decide di rientrare in Italia, armato di due pistole, per vendicare le vittime delle tre giornate. Spara tre colpi al re, che passava in carrozza, in occasione di un concorso ginnico. 

Catturato e sottoposto a processo, è condannato all’ergastolo con sette anni di segregazione cellulare, una condizione detentiva disumana. Nei primi 6 mesi fu trasferito a San Vittore e poi tradotto nell’isola di Santo Stefano, tra il Lazio e la Campania, dove erano reclusi solo ergastolani. 

C’è una testimonianza di Sandro Pertini che scrive di avere ricevuto dalle guardie delle confidenze circa la morte per percosse di Gaetano Bresci. Abolita la pena capitale, la fine del condannato, veniva affrettata spesso con sevizie e torture. 

Bresci aveva da leggere solo il dizionario Italiano - Francese e era sorvegliato a vista, ma aveva imparato a resistere alla tortura e è improbabile che si sia suicidato. 

Il tema della carcerazione offre spunti per argomentare sul tempo. Il confronto con il presente è quasi d’obbligo. 

Qualcuno afferma: i carcerati vogliono pagare la colpa, ma non vogliono essere privati della dignità. Namyar soggiunge che il brano letto da Paolo procura angoscia, “sapendo che hai un nemico potentissimo che è il tempo e a ammazzarlo non ce la farai mai”. Paolo risponde che la vicenda di Bresci rappresenta un pezzo della storia d’Italia e che il potere dopo quell’attentato ha cominciato a capire che doveva dare risposte diverse; Poi sottolinea ciascuno ha la sua gabbia, e rammenta il suo servizio militare in cui gli era stato ingiunto di dimenticare la sua identità, “per un anno devi solo ubbidire”.

Il tema delle gabbie mentali e non che imprigionano anche chi non è recluso solleva la domanda: Dove stanno le ali della libertà? Gli esempi sono numerosi, da Edward Bunker il detenuto che ha elaborato la sua esperienza dolorosa scrivendo libri, a Primo Levi che recitava poesie nei campi nazisti, a Silvio Pellico


Paolo legge il racconto Time is the Prison, ancora inedito, che piace molto ai partecipanti, poi prende la chitarra e canta brani che parlano di libertà di Bob Marley e di altri autori, quasi a esorcizzare la schiavitù e la prigionia che chiude gli orizzonti. 

Simone sottolinea che tante volte si è parlato del tempo e della vita che si congela, ma che la reclusione può essere impiegata in modo costruttivo. 

Agostino replica che si è condizionati a riempire il tempo con cose che non si vorrebbero fare. 

Per Salvo i pregiudizi degli altri fanno stare male chi sta male. Paolo risponde citando Charles Bukowski il quale scrive della prigionia di ogni giorno, in cui ogni forma di creatività si spegne, mentre l’uomo deve trovare una risposta interna. Qualcuno parla del taglio netto che la detenzione procura, “Noi abbiamo un taglio netto e non potremo più tornare sui nostri passi

La discussione sulla libertà, porta l’attenzione sulla stampa, anche lì si è imbrigliati e l’informazione deve coniugarsi con tanti compromessi. 

Vito, che fuori era un giornalista, confida che anche a lui era stato chiesto, senza successo, di fare killeraggio contro un politico. 

Il concetto di libertà è declinato a seconda dei temperamenti, la vera libertà è con la persona che ti vuole bene, dice Silvio. 

Agostino aggiunge, distinguendo tra libertà individuale e assoluta: occorre liberarsi dalla soggettività. 

Riportando il discorso sul tema dell’anarchia, Simone precisa che essa non equivale a confusione, arbitrio, caos, ma prefigura una società capace di autoregolarsi. 

Azalen legge dal resoconto dell'incontro precedente un brano di Sartre in cui si afferma che gli uomini sono condannati a essere liberi, perché anche la peggiore coercizione non esclude la possibilità di una scelta morale. 

Tra un discorso e l’altro, Paolo suona la chitarra e canta una sua canzone: Il disertore. Dopo l’applauso, Salvo osserva: Devi sacrificarti, perché qualcuno ne tragga beneficio, io difendo il mio diritto a vivere. E a Pasi che riflette: Non potremmo vivere senza una legge, risponde che nelle foreste del Borneo accade. 

Simone legge il brano di Errico Malatesta, un anarchico, in cui si mostra che gli uomini sono addomesticati e spinti a rinunciare all’esercizio della libertà. 

Paolo osserva che ogni potere è un arbitrio perché assume le caratteristiche dell’essere umano, anche quando si propone come imparziale. Ciò che insidia e corrompe la libertà, è la paura di parlare, ribadisce Namyar, denunciando il silenzio di chi teme l’autorità. 

Il cancro della libertà è l’autocensura, anche per Paolo, il quale cita il caso dell’informazione. Su suggerimento di Simone si parla di libertà di espressione e in particolare si parla della strage di Charlie Hebdo, il giornale satirico che aveva pubblicato vignette su Maometto, fatto oggetto di un attacco del terrorismo islamico. Il rispetto è il rovescio della medaglia della libertà, sembra essere la conclusione condivisa. 

I saluti pongono fine a questa intensa e partecipata sessione del libroforum.

Testo di Errico Malatesta:
Anarchia è parola che viene dal greco, e significa propriamente senza governo: stato di un popolo che si regge senza autorità costituite, senza governo. Prima che tale organamento incominciasse ad essere considerato come possibile e desiderabile da tutta una categoria di pensatori, e fosse preso a scopo da un partito, che è ormai diventato uno dei più importanti fattori delle moderne lotte sociali, la parola anarchia era presa universalmente nel senso di disordine, confusione; ed è ancor oggi adoperata in tal senso dalle masse ignare e dagli avversari interessati a svisare la verità. Noi non entreremo in disquisizioni filologiche, poiché la questione non è filologica, ma storica. Il senso volgare della parola non misconosce il suo significato vero ed etimologico; ma è un derivato di quel senso, dovuto al pregiudizio che il governo fosse organo necessario della vita sociale, e che per conseguenza una società senza governo dovesse essere in preda al disordine, ed oscillare tra la prepotenza sfrenata degli uni e la vendetta cieca degli altri. L’esistenza di questo pregiudizio e la sua influenza nel senso che il pubblico ha dato alla parola anarchia, si spiega facilmente. L’uomo, come tutti gli esseri viventi, si adatta e si abitua alla condizione in cui vive, e trasmette per eredità le abitudini acquisite. Così, essendo nato e vissuto nei ceppi, essendo l’erede di una lunga progenie di schiavi, l’uomo, quando ha incominciato a pensare, ha creduto che la schiavitù fosse condizione essenziale della vita, e la libertà gli è sembrata cosa impossibile. In pari modo, il lavoratore, costretto per secoli e quindi abituato ad attendere il lavoro, cioè il pane, dal buon volere del padrone, ed a vedere la sua vita continuamente alla mercé di chi possiede la terra ed il capitale, ha finito col credere che sia il padrone che dà da mangiare a lui, e vi domanda ingenuamente come si potrebbe fare a vivere se non vi fossero i signori. Così uno, il quale fin dalla nascita avesse avuto le gambe legate e pure avesse trovato modo di camminare alla men peggio, potrebbe attribuire la sua facoltà di muoversi precisamente a quei legami, che invece non fanno che diminuire e paralizzare l’energia muscolare delle sue gambe. Se poi agli effetti naturali dell’abitudine s’aggiunga l’educazione data dal padrone, dal prete, dal professore, ecc., i quali sono interessati a predicare che i signori ed il governo sono necessari; se si aggiunga il giudice ed il birro, che si forzano di ridurre al silenzio chi pensasse diversamente e fosse tentato a propagare il suo pensiero, si comprenderà come abbia messo radice, nel cervello poco coltivato della massa laboriosa, il pregiudizio della utilità, della necessità del padrone e del governo. Figuratevi che all’uomo dalle gambe legate, che abbiamo supposto, il medico esponesse tutta una teoria e mille esempi abilmente inventati per persuaderlo che colle gambe sciolte egli non potrebbe né camminare, né vivere; quell’uomo difenderebbe rabbiosamente i suoi legami e considererebbe nemico chi volesse spezzarglieli. Dunque, poiché si è creduto che il governo fosse necessario e che senza governo non si potesse avere che disordine e confusione, era naturale e logico che anarchia, che significa assenza di governo, suonasse assenza di ordine.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia

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