martedì 14 ottobre 2014

Chi riconosce di avere sbagliato?

Incontro del 29 settembre 2014 Milano Casa circondariale San Vittore. 

Leandro Gennari con le persone detenute intorno alla consapevolezza dei propri sbagli.
Azalen Tomaselli Leandro Gennari con le persone detenute.
Un cielo autunnale copre oggi Milano, Azalen e Leandro varcano il portone di San Vittore e attendono nell’aula cella l’arrivo dei partecipanti. L’avvio dell’incontro procede con la lettura del resoconto, spesso interrotta da rettifiche, che tradiscono l’interesse da parte di chi ha espresso la propria opinione a non essere frainteso. 
Un partecipante motiva il suo giudizio positivo sul carcere con una sua personale esperienza (ha trovato all’ufficio comando persone che hanno compreso la sua sofferenza, dovuta alla mancanza di colloqui con la figlie e gli hanno consentito di telefonare). 
Leandro Gennari trae spunto dal tema carcere per chiedere se tra coloro che sono abitanti “di questo ricovero” ci sia una disponibilità a riconoscere di avere sbagliato e il proposito di non commettere d’ora in avanti gli stessi errori. 
Polemicamente, gli si fa osservare quanto sia inappropriato chiamare il carcere ricovero, piuttosto bisognerebbe chiamarlo lager, annota un partecipante. 
Leandro Gennari ammette che vi sono ingiustamente ricoverati in una comunità che obbliga in modo frustrante, ma per tutti gli altri - ribadisce la domanda: "c’è una consapevolezza di avere sbagliato?

Massimiliano risponde: “Per quello che la società offre, molte persone sono indotte a sbagliare, bisogna provare a vivere nella strada.” 
Roberto replica: ”Stai trovando delle giustificazioni, ci sono delle alternative, si può ricorrere all’assistenza sociale” 
La controreplica è immediata e perentoria: “I servizi non danno niente” 
 Ma Leandro rilancia: “Mi piacerebbe sapere se tra quelli che sono qui, c’è qualcuno che dice: «Ho sbagliato»"
Uno dei presenti racconta: “Portavo una divisa, mi sono trovato nella necessità, dopo avere seguito un percorso sociale in cui facevo le code alla Caritas, in piazza Tricolore…
Giovanni interviene commentando che conosce bene quel contesto, non sono solo gli stranieri a fare la fila, ci sono anche molti italiani. L’altro prosegue descrivendo una situazione che colpisce soprattutto i padri separati, si tratta di un problema di cui tante persone non si sono accorte e riguarda molti impiegati che hanno perduto la casa “padri di famiglia lavati e stirati” che si recano al lavoro dopo una notte passata in macchina; 
poi fa un conto di come viene speso uno stipendio medio: 500 euro alla moglie, 350 per condividere una stanza, poi l’assicurazione auto, se non si ha nessuno nella vita, si finisce con il mendicare un pasto. "Le malattie sono aumentate in modo esponenziale", afferma, per effetto dei problemi sociali.

Leandro ribadisce: “A parole, la giustizia è uno stimolo a migliorarsi e a uscire da quello che è stato”. Ma gli si fa notare che spesso la carcerazione spezza una vita, privando di tutto un individuo, dalla capacità lavorativa alle relazioni affettive, alle amicizie a tutti i rapporti interpersonali. 
Giovanni racconta la storia di un professore di educazione artistica scagionato dall’accusa di pedofilia in cui era incappato per “ingenuità”. Molte critiche piovono sul professore che non aveva saputo difendersi dalle effusioni delle sue alunne (baci, carezze, comportamenti fin troppo espansivi come sedersi sulle ginocchia del docente, forse per affetto o per strappare un bel voto). 
Da parte del gruppo si dichiara inammissibile uno stile inadeguato al ruolo che si ha nell’esercizio della propria funzione. 
Leandro insiste: “Si può fare un esame di coscienza, riconoscendo che siamo fragili psicologicamente e di avere sbagliato” 
Qualcuno gli fa eco: “Cosa posso fare? Subire, essere più umile, tentare di trovare tanto coraggio” 
Un partecipante rimasto a lungo taciturno dichiara: “Non aiuta (il carcere), peggiora" e racconta della lunga trafila di istituti di pena e della separazione dolorosa dal fratello. “Ti fa venire più cattiveria”, commenta. 
Le storie sul carcere si accavallano, dal trans che si è impiccato, al marocchino lasciato senza televisione il quale si è tolto la vita davanti la guardia. 
Poi lo stesso partecipante soggiunge: “Capisco chi non ha confessato per paura di scontare la pena, ma non, chi mia ha condannato ingiustamente. La mia natura è che se vengo provocato divento una belva, sono violento”. 
Il tema della violenza suscita la reazione di un compagno che dichiara “Sono stato accusato di violenza latente, è un ossimoro", poi parla dei viaggi che è stato costretto ad affrontare per andare a trovare la figlia. 
Nelle sue parole traspare la fatica di vivere condizioni in cui i diritti sono calpestati e l’anima è ferita. "Spesso a violare la legge sono proprio coloro che dovrebbero rappresentarla", conclude, a partire dalle celle inagibili. Il carcere è invivibile, di notte, quando risuonano le urla di chi sta male, anche psicologicamente. 
Giovanni dice il codice sancisce di rivolgersi alla persona detenuta con il lei, alcuni agenti ricorrono perfino al fischio per chiamare i detenuti, ci sono casi di abusi, di percosse. 
Azalen sul finire dell’incontro legge: Satunad, la città di passaggio, un testo scritto da una detenuta del femminile, nell’ambito del progetto su Le città invisibili, che riscuote giudizi positivi. 
Roberto commenta: ”Si capisce che è scritto da una donna, perché parla di un semaforo dove non si accende mai il verde e questo impedisce di uscire da questa città immaginaria”. 
I saluti e le strette di mano suggellano come sempre la fine dell’incontro.     
* I nomi dei detenuti sono di fantasia    

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