venerdì 25 maggio 2012

Pro patria: senza processi e senza prigioni

Riflessioni di Azalen Tomaselli

su Pro patria di Ascanio Celestini.


Non vorrei fare troppe sbrodolature, ma quello che colpisce positivamente in questo monologo lungo 100’ di Ascanio Celestini è la capacità di mettere insieme le pagine antieroiche del nostro Risorgimento e le parole in libertà di un detenuto, figlio di un lustratore di mobili. Il virtuosismo linguistico dell’autore (e attore) ha fatto centro ancora una volta, scavando nelle memorie del nostro paese per buttare tanta zavorra retorica sugli eroi e i martiri che hanno fatto l’Italia. Il pretesto è il discorso di un detenuto-narratore che nella sua cella, due metri per due, ha molto tempo per leggere e per parlare, in una specie di reverie, a Giuseppe Mazzini. Un Mazzini silenzioso e sconfitto, quasi un uccello di malaugurio nel suo immancabile vestito nero, fondatore della gloriosa repubblica romana del ‘49, che aveva promesso di governare senza prigioni e senza processi. Il discorso si snoda tra le pagine del Risorgimento di cui riesuma i protagonisti: Pio IX, Pisacane, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour, svelandone interessi e giochi politici, e una cella, dove il “senza nome” si improvvisa Maître à penser. La domanda che serpeggia come un filo rosso è: quando è finita la rivoluzione? Quando è che siamo stati sconfitti? Che rapporto c’è tra la Storia e la vicenda di questo carcerato? 




Forse la fine dell’ illusione di edificare – dal sangue versato per il Risorgimento o dalle macerie della seconda guerra mondiale o dai sommovimenti degli anni ‘70 - un paese fondato su giustizia, libertà, dignità, uguali opportunità per tutti coloro che vi nascono e che vi abitano. Il detenuto senza nome (perché lui è un’equazione, lui è il reato che ha commesso), ha due padri, uno di sangue, piccolo artigiano, umiliato dai titolati per cui lavora, e uno ideale, umiliato dalla storia. Sa che la sconfitta non riguarda la storia passata, ma l’Italia di oggi. La nostra repubblica ha ucciso non solo le libertà, ma anche la dignità dei tanti “senza nome”: carcerati, rom, drogati, extracomunitari, senzatetto, che crescono di numero e che impongono carceri sempre più grandi, affinché quelli che il nome lo hanno mantenuto, possano vivere tranquilli. Il discorso che pronuncia, a nome suo e di tutti questi “altri”, riguarda l’impossibilità di pentirsi in una società ingiusta e che nega il rispetto. - Non mi pento immagina di rispondere al giudice – perché ho rubato una mela – perché solo se tutti avessero almeno una mela, sarebbe un reato rubare una mela. Ma se io ho fame è legittimo che io cerchi di mangiare e lo stato non mi può condannare. 

Un discorso “antistatalista” che tuttavia mette a nudo le colpevoli mancanze delle nostre istituzioni e punta il dito sulle condizioni in cui molti detenuti sono costretti a vivere in spazi promiscui e troppo angusti. Alle prese con secondini “intoccabili” che esercitano uno strapotere miope e arrogante. Naturalmente, non tutta la realtà carceraria, per chi la frequenta, corrisponde a questo ritratto negativo, ma denunciare soprusi, ingiustizie, contraddizioni è sempre un dovere e Ascanio Celestini lo fa con grazia e profondità come in questo passaggio:

chi ruba una mela finisce in galera anche se molti pensano che rubare una mela è un reato da poco. e chi ruba due mele? chi ne ruba cento? quando il furto della mela diventa un reato? c’è un limite? c’entra con la qualità della mela? la legge è uguale per tutti e i giudici non si mettono a contare le mele. la statua della giustizia davanti al tribunale ha una bilancia in mano, ma entrambi i piatti sono vuoti. non è una bilancia per pesare la frutta.

Insomma un testo teatrale che affronta temi “forti”, strappando qualche sorriso, ma svegliando - si spera - qualche coscienza in letargo.

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