lunedì 12 gennaio 2015

VII Giornata del volontariato: "Lezioni" di giustizia e carcere a scuola

VII Giornata del volontariato 

Una mano tira l’altra, per un mondo più solidale. 
Una mattinata per conoscere i tanti volti del volontariato.



29 ottobre 2014 Milano

Organizzato da Istituto di istruzione superiore "Cremona".

Con il contributo di:
Ciessevi, Croce Rossa Italiana, Avis, Legambiente, LiberanteProgetto Integrazione
Studio assistito tra pari, Fondazione Aquilone OnlusSocietà di San Vincenzo De Paoli, L'amico Charly, La Lanterna, Doposcuola Confalonieri Locatelli Fabbri.


Liberante ha partecipato a un incontro con i ragazzi degli Istituti Zappa e Cremona, per parlare di volontariato in carcere.



Milano. Una intera giornata dedicata al volontariato. Protagonisti gli istituti Zappa e Cremona che si sono attrezzati per accogliere alcune delle numerose associazioni che compongono l’universo variegato del terzo settore. 

Nell’aula rossa dell’istituto Zappa si sono avvicendati gli allievi della quarta e quinta classe dell’ITIS e del liceo scientifico per un inedito sguardo sul pianeta carcere. 

Dalle 10.00 alle 13.00, i volontari di Liberante hanno raccontato ai giovani che gremivano la sala le attività svolte in favore delle persone ristrette del reparto protetti e del reparto femminile di San Vittore. Simone, Azalen, Dana, una detenuta che sta scontando una pena alternativa a Lodi in una residenza per rifugiati politici del Maghreb, e Sonja hanno cercato di svelare ciò che c’è dietro le mura di un istituto penitenziario. 

Azalen apre la presentazione del progetto, spiegando il perché si sia scelto di chiamare Liberante il blog che pubblica i resoconti degli incontri tra le persone detenute e gli scrittori. 

E’ una parola che suggella la fine della carcerazione, un annuncio con il quale si restituisce ai reclusi il ritorno alla vita normale. Di solito l’annuncio recato da un agente di polizia penitenziaria è seguito da ovazioni di gioia, abbracci, strette di mano, lacrime per il distacco, dopo mesi, a volte anni, vissuti nella stessa cella. Perché le amicizie in carcere sono profonde. 

Simone spiega a un uditorio attento e disciplinato la differenza tra una casa di reclusione, dove permangono i detenuti che hanno avuto una sentenza di condanna, e una casa circondariale dove vengono trasferiti gli imputati dopo l’arresto, in attesa di giudizio. 

Poi descrive l’edificio di San Vittore, in origine un convento, trasformato solo più tardi in struttura detentiva. Improntato al modello settecentesco del panopticon presenta una pianta a sei raggi o reparti che si dipartono da un ampio locale centrale, “la rotonda”. 

Ogni reparto ospita una particolare tipologia di reati: tossicodipendenti, giovani adulti, pazienti psichiatrici, delinquenti comuni, appartenenti a bande o a cosche mafiose; in particolare, il sesto secondo è il reparto dei “protetti”, individui soggetti a misure di protezione in quanto invisi al resto della popolazione carceraria. 

Comprende pentiti, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine, transgender, omosessuali, autori di reati a sfondo sessuale come maltrattanti, stalker, pedofili, etc. “Il carcere nel carcere”, così è definito dai suoi abitanti per le più severe misure restrittive. 

Anche se, negli ultimi tempi la situazione di sovraffollamento è migliorata, per effetto delle minacce pendenti di migliaia di ricorsi alla Corte Europea, che espongono l’Italia al pagamento di salate sanzioni pecuniarie (100.000 euro per ogni 7 detenuti).

Liberante, spiega Simone, ha l’obiettivo di gettare un ponte tra il carcere e la cittadinanza, "perché in carcere possono andare anche persone come noi che fino al momento della carcerazione hanno condotto una vita regolare"Bisogna sfatare certi stereotipi e non considerare il luogo di reclusione in termini negativi. 

La funzione della pena è non solo afflittiva, ma soprattutto rieducativa e deve tendere a restituire alla società una persona migliore. 

Cede la parola a Azalen che parla dei tre tipi di giustizia: 

la giustizia distributiva, incentrata sull’erogazione della pena e sulla limitazione della libertà;

la giustizia riabilitativa che tende a dare al reo tutti gli strumenti per un reinserimento sociale;

la giustizia riparativa che mira soprattutto a ricucire lo strappo che il reato ha inferto nel corpo sociale. 

Azalen parla della mediazione quella pratica che permette l’incontro tra chi ha commesso una colpa e la sua vittima, in presenza di una figura terza (il mediatore) che si assume il compito di riaprire il dialogo interrotto o mai iniziato tra chi ha compiuto un torto e chi l’ha subito per approdare a una reciprocità e a un riconoscimento della dignità dell’altro. 

Attraverso le rispettive narrazioni dei fatti ciascuno apprende una parte di verità prima ignorata, abbandonando la propria visione unilaterale. La vittima può esprimere il proprio rancore e l’autore dell’offesa può riconoscere le conseguenze di quanto ha commesso. 

Poi è la volta di Dana, che racconta commossa la sua esperienza nel centro di rifugiati politici, dicendo: "sento di dovere restituire, quanto ho ricevuto". Racconta dei corsi e dei laboratori artistici e artigianali che offrono una opportunità di crescita interiore nel sorprendente incontro con i tanti volontari animati da un impegno solidale e costruttivo. Dal teatro, alla scrittura creativa, al giornale, ai corsi di cucina e di cucito, il carcere diventa un laboratorio vivo che attinge al serbatoio di lingue, culture, mestieri che ne fanno una realtà complessa e ha bisogno di strumenti formativi per conseguire la sua utilità sociale.

Un ragazzo chiede a uno dei volontari se siano orgogliosi del lavoro che svolgono. 

Risponde Sonja, affermativamente, raccontando del progetto di scrittura collettiva di un romanzo, un’occasione per sperimentare una forma di libertà, rimettendo in moto la fantasia, nell’incontro dialogico, che permette di sintonizzarsi su altre onde, e di riscoprire anche in un spazio chiuso, dai confini ristretti la creatività.

Alcuni ragazzi chiedono: “Perché dobbiamo aiutare delle persone che hanno commesso dei crimini, che hanno trasgredito le regole?” 

E’ Simone a intervenire. Il carcere è il luogo deputato alla elaborazione della pena, ma non è per sempre. 

Cosa ritenete sia meglio, che la persona detenuta, una volta scontata la sua pena esca colma di odio e animata dal bisogno di rivalersi per le sopraffazioni subite o che esca con il sincero convincimento di avere sbagliato e di non volere più ricadere negli errori del passato. 

"Quale uomo, sottoposto a una condizione di perenne disagio, costretto nel proprio malessere, potrà realmente essere disposto a cambiare?

Poi sottolinea non bisogna scambiare questo atteggiamento con il buonismo che tutto assolve, o con il lassismo politico e istituzionale, ma con la consapevolezza della necessità di rieducare chi ha sbagliato per reintegrarlo nel corpo sociale e per limitare i rischi di una recidiva a salvaguardia di tutti. 

Aiutando loro, facciamo qualcosa anche per noi.

Un altro ragazzo dice: "A noi è stato insegnato che quando sbagliamo, dobbiamo essere puniti. Perché questo principio non è valido per chi ha commesso azioni gravi, se non irreparabili?” 

Qualcun altro commenta: “Mi rifiuto di pensare che chi ha compiuto crimini contro le donne, contro i bambini, debba essere perdonato. Vi sono azioni che non possono essere perdonate”.

Il quesito è filosofico e attiene più alla sfera etica che a quella giuridica. 

Simone sostiene che le persone possono cambiare e che l’uomo della pena è diverso da quello che è stato nel momento in cui si macchiava di un crimine. 

Ma la domanda non può avere una risposta se non nell’interiorità delle coscienze. 

Il dibattito prosegue per tutta la mattinata rivelando una dicotomia tra chi prende le parti delle vittime e ritiene necessaria l’espiazione e la sofferenza del regime carcerario e reclamando garanzie per le vittime e i cittadini onesti e chi è convinto che la pena in sé non aiuta a migliorare le persone. 

Lo scopo del nostro lavoro e di edificare ponti di socializzazione, di creare una proficua interazione per demolire certi preconcetti sulla popolazione carceraria, costituita in larga misura, circa la metà, da non italiani, per un quarto da tossicodipendenti, e per la rimanenza dalla criminalità comune. "Mi sono reso conto che chiunque può andarci a finire…ci sono anche degli innocenti".

La mattinata scorre. Alcuni studenti si avvicinano ai volontari per avere informazioni sul blog e sulla possibilità di partecipare ai progetti e Simone li rimanda alla referente dell’iniziativa sul volontariato, la professoressa Emilia Barone, che si è seduta in mezzo a loro a ascoltare lo scambio di opinioni. 

Speriamo che questa giornata abbia accresciuto le conoscenze su una realtà su cui spesso cala un silenzio refrattario all’impegno e all’ascolto, un’indifferenza per qualcosa che esula dagli orizzonti delle persone.

Ma, come è stato detto da più parti, per conoscere le fondamenta e i caratteri di una democrazia, occorre indagare innanzitutto il sistema penitenziario, esso è infatti la misura più indicativa del grado di civiltà di un popolo.

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