giovedì 8 dicembre 2011

Colpa e perdono

Cattura di Cristo - Caravaggio (1602)

Le
considerazioni di Luca mi suggeriscono alcune risposte sul tema complesso della giustizia. Vorrei avventurarmi sul terreno impervio della colpa che rappresenta la polarità dialettica della giustizia. Il concetto di colpa evoca quello del male. La prima domanda che solleverei è la seguente: il male si concilia con la modernità? Con un mondo che cambia continuamente i suoi modi di affrontare la realtà e che deve continuamente dismettere vecchi sistemi valoriali in una rincorsa che non ha fine? Il male è metafisico o è inserito nel tempo e del tempo è la rappresentazione più evidente? E’ infatti il tempo a decretare ciò che è male e per chi: per l’autore per il destinatario, per la vittima ..Il rischio di queste domande è di negare la stessa esistenza del male mettendo sullo stesso piano comportamenti anche opposti e trovando delle giustificazioni a posteriori.  Considerare tutto lecito è il principio che arma la mano di Raskol'nikov, il protagonista di Delitto e castigo, forse un antesignano della modernità. Il concetto di colpa è d’altronde collegato a quello di responsabilità nel suo senso etimologico di “rispondere” a qualcuno dei propri atti. 





Vorrei riconsiderare il problema del male volgendo però uno sguardo panoramico al passato. Nel mondo antico non esisteva il male in senso morale, in quanto contrapposto dialetticamente al bene. E se esisteva in una forma attenuata, esso era esclusivo privilegio di una cerchia ridotta di persone. Tale cerchia era il ceto aristocratico che aveva come modello di comportamento il guerriero, l’eroe. Eroe era chiunque fosse chiamato a   sfidare il destino in un agone impari, data la sproporzione di forze in campo. La sua  colpa era incolpevole, in  quanto era la conseguenza diretta di un fato. Il  fato, dal latino “fatum”,  designava  ciò che è stato detto, deciso, destinato. La vita di un uomo era sottoposta a questo senso destinale al quale era impossibile e vano sottrarsi. La tragedia antica esprime efficacemente questa visione di un’umanità  soggetta a forze ineluttabili. In essa il coro svolgeva il compito di dolente accompagnamento all’imperscrutabile concatenamento dei fatti che portava alla morte e alla rovina del singolo o di un intero gruppo. La colpa, quando c’era, era "incolpevole" perché inscritta nel destino di ognuno, l’unica scelta era costituita dalla consapevolezza con cui l’eroe si conformava a questo destino  e ne seguiva le inflessibili leggi. Quindi, se non c’era colpa in quanto il destino era il motore di tutto, le passioni erano però ciò che portava alla violazione di un’armonia e che si impadroniva dell’uomo rendendolo facile preda di azioni odiose.
Anche nel mondo ebraico la colpa non si identificava con il male, ma era piuttosto la violazione di un patto stretto tra Dio e il suo popolo. I comandamenti consegnati a Mosè sono le leggi che sanciscono il patto di fedeltà  e che mettono però l’uomo nella condizione di mettersi al di fuori di esso. Anche nella Genesi Adamo stringe un patto con Dio fondato sull’impegno a non cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza. Nella vicenda tormentata del popolo salvato da Dio nell’Esodo, la rottura del patto consiste nel sacrificio al vitello d’oro. Dio mette l’uomo nelle condizioni di dubitare della sua esistenza e  rompe il patto di alleanza quando questi, sopraffatto dalle difficoltà incontrate nel deserto del Sinai, cede al dubbio. Il rapporto tra Dio e l’uomo nel Vecchio Testamento è impostato su un modello giuridico. Il male è la violazione di una norma che può essere ripristinata quando l’uomo recedendo dall’errore  permette il reintegrarsi del patto. Tutto ritorna come prima. Non c’è perdono da parte di Dio ma c’è il riallacciarsi di un legame o di un’alleanza che la colpa aveva infranto. Il “prima” è sempre revocabile, purché intervengano le condizioni che ristabiliscono l’originaria amicizia. Il tempo dell’Antico Testamento è un tempo revocabile governato dalla legge. D’altra parte i comandamenti costituiscono la base dell’ordinamento giuridico del popolo ebraico.
Con il Nuovo Testamento il male non è cancellato ma è assunto da un Uomo-Dio che prende su di sé tutte le caratteristiche dell’umanità e della divinità operando una sintesi perfetta. La morte in croce infamante esprime la trasformazione dell’abiezione in qualcosa di grandioso. Nel suo racconto su Giuda Le tre versioni di Giuda,  Borges dà tre possibili interpretazioni della figura di Giuda per bocca di un religioso Nils Runeberg che si interroga sulla colpa del traditore per antonomasia. La più suggestiva è che Dio si sia incarnato in Giuda, si sia celato nell’uomo più abietto e che abbia tenuto nascosto questo segreto per non far vacillare le coscienze e per non suscitare scandalo. D’altra parte Gesù è l’uomo dello scandalo. Cosa c’è di più scandaloso dell’affermare la propria natura divina, del proclamarsi figli di Dio? E’ lo scandalo della onnipotenza o dell’hybris, per cui l’uomo prende il posto di Dio. Ma ritornando al male, con il Cristianesimo viene meno la visione giuridica e si fa strada una visione morale della colpa. Il concetto di colpa è strettamente connesso al concetto di libertà, la colpa non è più la violazione di un patto o una disubbidienza ma è la scelta libera di seguire il proprio tornaconto, le proprie passioni, è la proterva negazione dell’altro. Il rapporto non è più verticale,  tra Dio e la sua creatura, ma è un rapporto con l’altro mediato da Dio, la morale si “orizzontalizza”. Il peccato può essere rimesso attraverso il pentimento e il perdono. L’uomo del peccato è, a differenza dell’uomo del Vecchio Testamento, un uomo trasformato, un uomo migliore. La grazia agisce infatti attraverso la colpa. Se l’uomo fosse per sua natura buono non ci sarebbe la bontà ma una predisposizione naturale dell’animo. La colpa o il tradimento sono l’altra faccia della santità e della fedeltà.  Soltanto il perdono può sanare questa frattura. Esso è ciò che mette sullo stesso orizzonte  di trascendenza colui che perdona e colui che è perdonato. E’ il riconoscimento della comune fragilità, la fragilità di chi si nutre di rancore per avere subito un’offesa e la fragilità di chi non vuole ammettere di avere commesso volutamente il male che ripara la rottura. Colpevole e innocente, senza il perdono, sono dentro un comune orizzonte di negazione dell’altro. Il peccato o la colpa sono in questa diversa concezione la opportunità di un riscatto in grado di liberare dal peso dei propri errori, di fare rinascere il peccatore. Secondo il giurista Gustavo Zagrebelsky “il perdono comporta un passo in avanti sulla via del miglioramento  morale di fronte a Dio e il male può diventare la forza che si trasforma in bene, può essere concepito come un fattore positivo”
Una società che non perdona è una società che perde la propria capacità di rigenerarsi.

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